Lorenzo avvistò in lontananza l’auto della sua ex moglie arrivare nella sua direzione: stava correndo perché sapeva bene di essere in ritardo. Si arrestò proprio di fronte a lui, fermo sul marciapiedi da almeno dieci minuti.
“Scusa” disse lei, aprendo la portiera ma senza scendere “parecchio traffico e ora devo schizzare al lavoro.”
Lui annuì mentre Riccardo andò a scaricare il pesante zaino dal baule e poi andò ad abbracciare forte la madre e schioccarono molti baci.
Berlino.
La prima vera vacanza studio, tre mesi lontano da casa.
I due adulti si scambiarono un’occhiata piena di sottintesi e ricordi. Un cenno della mano di entrambi e poi lei innestò la retro per ripartire velocemente esattamente come era arrivata.
“Andiamo?” chiese il ragazzo, strappando l’attenzione del padre dall’auto che diventava sempre più piccola all’orizzonte.
Lorenzo annuì e prese lo zaino dalla spalla del figlio; la sua auto era parcheggiata a una decina di metri. Riguardo il traffico aveva ragione la sua ex-moglie e impiegarono il doppio del tempo normale per arrivare alla stazione. Ma erano in largo anticipo e non c’era quindi nessuna fretta.
“Non farmi anche tu mille raccomandazioni” disse Riccardo ridacchiando.
Il padre sorrise e disse che quelle della mamma sicuramente bastavano. Invece disse che lo invidiava.
“Il mio primo grande viaggio all’estero fu a Oxford” aggiunse “avevo un anno meno di te.”
So cosa stai provando, commentò a bassa voce con una punta di malinconia.
“Mi auguro solo che starai bene e che la vacanza studio sarà utile.”
“Sei subdolo, papà. La tua è una raccomandazione mascherata.”
Risero entrambi.
Lorenzo propose di prendere qualcosa al bar della stazione e Riccardo accettò con entusiasmo. Entrati nel lungo corridoio di fronte all’edificio, entrambi dovettero scavalcare il sacco a pelo di qualcuno che si era accampato quasi di fronte all’entrata del bar. Lorenzo aprì la porta al figlio e, prima di entrare a sua volta, non gli sfuggì l’occhiata contrariata che Riccardo lanciò al grosso fagotto steso per terra.
“D’inverno succede” commentò, sedendosi a un tavolo libero “nel corridoio cercano riparo dal freddo e dall’umidità.”
“Ma nessuno li aiuta?”
Lorenzo rispose che la Caritas era molto attiva in tal senso, soprattutto con la mensa, ma che anche il Comune faceva la sua parte, organizzando tante iniziative per aiutare materialmente chi non aveva una casa.
“Ma non tutti accettano questo tipo d’aiuto” chiarì.
Secondo lui esisteva una netta distinzione tra il cosiddetto senzatetto e il Clochard.
“Ossia il classico barbone” considerò Riccardo.
“Sì, ma il termine francese è più elegante.”
Quando Lorenzo era piccolo, a Bergamo vivevano per le strade dei personaggi molto popolari che avevano tutte le caratteristiche per essere definiti Clochard.
“Tra di loro, il Costante era il più famoso.”
Un tipo piccoletto e molto rissoso – solo verbalmente – che portava sempre una maglia da ciclista della Bianchi – hai presente la marca di biciclette? domandò aprendo una parentesi ma Riccardo non rispose – e un cappellino sempre in tema ma con la visiera portata al contrario, un gesto allora inusuale.
“Forse era solo involontario, eppure si trattava di un atto da ribelle.”
Nessuno sapeva da dove venisse e che vita avesse fatto prima, né se avesse mai avuto un lavoro o una famiglia. E nemmeno se Costante fosse davvero il suo nome.
Era litigioso con tutti e la sua parlata roca era talmente confusa che rendeva comunque problematico uno scambio d’opinione con lui. Ma probabilmente a lui andava bene così.
“Io ero un bambino e sentivo i grandi dire che era un accanito tifoso dell’Atalanta – allora non si chiamava Dea – e questo era uno dei suoi argomenti preferiti.”
Non bisognava però contraddirlo altrimenti si scatenava la rissa. Solo a parole, naturalmente, e che vinceva sempre lui, per timore o per sfinimento.
Girava un po’ dappertutto, Brumana compreso – lo stadio si chiamava così allora, disse al figlio che aveva spalancato gli occhi – e lo conoscevano tutti perché era diventato una figura caratteristica della Bergamo quotidiana. Non si può dire che fosse un tipo piacevole ma era comunque considerato da tutti un personaggio abituale. Un esemplare particolare della fauna umana bergamasca.
Riccardo, senza volerlo guardò verso la porta e quindi nella direzione del sacco a pelo ma stavolta il suo sguardo si fece più dolce.
“Poi devo citare anche il Rocco” continuò Lorenzo.
Sempre quando era piccolo, ricordò di aver sentito gli adulti parlare di questo vecchio che passeggiava sempre placidamente dalle parti di via XX Settembre e avvolto in un maleodorante pastrano. Stazionava di giorno sui gradini della chiesetta di Santa Lucia e, data la posizione che aveva scelto, era quasi celebre come il Costante. Nessuno sapeva dove dormisse, del resto lo stesso valeva anche per il Costante. Forse l’Albergo Popolare ma chissà…
“Il mio amico Richard, che ha qualche anno più di me, ha fatto in tempo ad osservarlo bene e me ne ha parlato”.
Non comunicava con nessuno e nessuno gli rivolgeva la parola, considerando per di più che si esprimeva in un linguaggio difficilmente comprensibile; aveva una lunga barba bianca incolta e i suoi abiti non profumavano certo di ammorbidente. Probabilmente, a causa della sua vita errabonda, non vedeva spesso nemmeno il sapone anche se questa mancanza pareva proprio lasciarlo indifferente. In ogni caso aveva quello che si chiama un caratteraccio, chiuso e poco conciliante con i suoi simili. Gli erano rimasti due o tre denti che mostrava solo quando qualcuno gli dava una monetina, anche se lui ufficialmente non chiedeva l’elemosina. Via XX Settembre, come oggi, era una via di grande passaggio ma lui non dava fastidio a nessuno e infatti i vigili lo lasciavano in pace.
Quando voleva fare qualche soldo in più, claudicava per una ventina di metri fino agli affollati Magazzini Morosini, un vecchio e dignitoso palazzo che stava all’angolo con Largo Medaglie d’Oro e dove ora invece si erge un orrore tutto vetro: lì c’era il passaggio degli acquirenti di stoffe e tovaglie, i quali aprivano il portamonete più volentieri dei frettolosi passanti di via XX Settembre.
“Richard mi ha anche detto che in quegli anni girava per la città perfino un epigono del Costante ma in versione francese, che tutti chiamavano Antonio”.
Dubito che fosse il suo vero nome, aggiunse.
Camminava con due rudimentali stampelle perché aveva grossi problemi alle gambe; anche lui, in fondo, come gli altri si portava dietro un fondo di mistero e di leggenda. Camminava, se così si può dire, su e giù per il viale della stazione con indosso un cappotto sformato e sulle spalle i suoi averi avvolti in un fagotto.
“Lui sì che chiedeva l’elemosina e, quando la otteneva, si tratteneva a chiacchierare con l’occasionale benefattore.”
Raccontava volentieri del suo passato nel suo italiano incerto, soprattutto di quando era nella Legione Straniera. Naturalmente nessuno sapeva se fosse vero, ma questo dava un tocco di avventuroso romanticismo alla storia del personaggio.
Però qualcosa di certo si sapeva su di lui: Richard lo conobbe davvero e Antonio una volta gli mostrò un libretto di risparmio con una cifra esorbitante per l’epoca e che lui teneva per i suoi due figli. Quindi non era povero ed era papà.
Forse.
“Un altro personaggio bizzarro vagava per il centro abbigliato in un modo che non poteva passare inosservato”.
Altezza media e robusto, barba incolta, capelli raccolti a coda di cavallo e occhiali, portava sempre ovunque e in qualsiasi stagione un cappello da cowboy, gilet di pelle e maglietta, jeans e stivali a punta stile texano. Ma soprattutto un grande stereo portatile sulla spalla, simile a quello dei rapper che si vedono nei film americani.
“Tipo quelli che ballano break dance o rap per strada?”
Proprio così, confermò Lorenzo.
Mai saputo il suo nome, ma pare (dubitare in questi casi è sempre salutare) che fosse il figlio di un famoso avvocato della città. Aveva imperversato negli anni Ottanta e Novanta, dopo di che era sparito dalla circolazione.
“E poi ti parlo di una donna.”
La venditrice di tartufi.
Raccontò di questa anziana donnetta, piccola ed esile, dalla pelle del viso raggrinzita e con i capelli grigi e tenuti in ordine da una grande molletta. Una donna nella quale molti si erano imbattuti e in qualsiasi parte della città.
“Tu eri da qualche parte per i fatti tuoi” raccontò “e inaspettatamente saltava fuori da chissà dove questa donnina e, con il tono cauto e sommesso di uno spacciatore che vende la roba, ti chiedeva: vuole dei tartufi?”
Riccardo rise come un matto e fece sobbalzare i baristi.
Tartufi? chiese ancora ridacchiando a bassa voce.
“Sì, ma anche funghi” specificò il padre “a seconda della stagione e probabilmente della disponibilità.”
Disse che nessuno aveva mai saputo chi fosse e da dove venisse, ma la conoscevano tutti.
“Quanto manca al treno?” chiese improvvisamente, guardando l’ora in alto.
Riccardo fece un gesto con la mano come per dire che potevano stare tranquilli.
“Allora ti racconterei anche di un altro personaggio della Bergamo popolare” disse il padre con un’aria quasi maliziosa.
Una figura particolare, sottolineò sorridendo con un angolo della bocca.
“Si tratta di una donna, né bella né elegante, e che per strada faceva un mestiere molto antico.”
Era conosciuta da tutti di fama ed era soprannominata La Lupa.
“Il nome ricorda il personaggio del romanzo del Verga” sottolineò Lorenzo e Riccardo annuì.
“Parliamo di una donna additata con scherno dalla società nella quale viveva a causa del suo comportamento e per il suo aspetto dimesso.”
Lorenzo, come tanti, l’aveva vista talvolta da lontano mentre passeggiava per strada, con indosso un maglione a collo alto e pantaloni dalla foggia maschile, vestiti che non avevano certo alcun intento provocatorio; non aveva niente della classica e vistosa lucciola, era alta e imponente, con i lunghi capelli scuri raccolti a crocchia sulla testa e il viso che pareva sempre affaticato.
Quando la vide la prima volta in viso, Lorenzo pensò a un’espressione sentita in giro: la fatica di vivere.
Lo sguardo della donna era lontano, estraniato da ciò che stava intorno. Quando gli capitò di vederla, a lui non era sembrato che stesse lavorando, ma che invece stesse semplicemente camminando per i fatti suoi.
“Forse nel dopoguerra la povertà l’aveva costretta a vivere di espedienti come tante altre persone. E alla fine non era più riuscita a recuperare una vita più sana.”
Per di più, probabilmente negli anni la gente aveva anche ingigantito la brutta immagine che si era creata su di lei, come succede spesso.
Tanti anni si era saputo che abitava vicino alla città ma soprattutto che si chiamava Irene: aver associato alla donna un vero nome e non un lugubre soprannome, le aveva conferito una luce più umana e l’aveva tolta dalla triste teca delle macchiette.
“Nessuno sapeva perché fosse finita sulla strada e quale vita avesse fatto prima.”
Si raccontava che avesse figli ma la sua figura era avvolta nel mistero e forse era proprio ciò che la società voleva.
“Come qualsiasi altra società, anche la nostra pretende che il reprobo resti incomprensibile perché rappresenta ciò che nessuno vuole ricordare: vale a dire che nella vita si può sprofondare in basso per qualsiasi motivo e che spesso, troppo spesso, manca qualcuno che viene ad aiutarti. E allora il reprobo resta sul fondo.”
A parte tutto questo, e che piaccia o no, come gli altri La Lupa era e resta un personaggio della Bergamo popolare con tutte le sue ombre e le sue contraddizioni.
“Wow” esclamò Riccardo “il tuo racconto mi ha molto colpito.”
Lorenzo annuì e adocchiò l’orologio sulla parete: mancava un quarto d’ora alla partenza del treno. Si alzarono rapidamente e il ragazzo appoggiò la mano sul portafoglio che il padre aveva estratto.
“Vorrei offrire io oggi.”
Le labbra di Lorenzo s’incresparono in una smorfia di ammirazione e lo lasciò fare.
Osservò il figlio durante l’operazione del pagamento e lo accompagnò al binario.
“Sembra un’altra città” disse Riccardo “quella che racconti tu.”
Lo sguardo di Lorenzo indugiava qua e là tra i binari e i passeggeri in attesa.
“Lo è, Ricky. E non solo perché sono passati tanti anni.”
Il treno per Milano Centrale era già pronto sul binario e, dopo aver abbracciato il figlio, restò a guardare le carrozze marciare lentamente verso la loro destinazione.
Suo figlio andava incontro alla vita e al suo futuro.
Diede un calcio a una lattina accartocciata e scese le scale per uscire dalla stazione.