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«Per chi éla la nòcc?»: la leggenda della «dòna del zöch»

Articolo. Protagonista di diversi racconti in Valle Imagna e Val Brembana, la «donna del gioco» rimanda alla prova, al vizio, alla fedeltà e alla femminilità. Ma soprattutto a quel buio della notte che può fare smarrire ogni essere umano

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(foto Lario Tus)

«Per chi éla la nòcc?» («Per chi è la notte?»). «Per mé, per tè e per chèi che pöl miga ‘ndà ‘ntùren del dé» («Per me, per te e per quelli che non possono andare in giro di giorno»). La domanda, enigmatica e conturbante, riecheggia altre domande “famose”, e relative risposte più o meno implicite, nella nostra cultura. «Shomèr ma mi-llailah?», cioè «Quanto resta della notte?» – da cui Francesco Guccini ha tratto l’omonima canzone – riprende ad esempio un passaggio del profeta Isaia (21, 11-12), riguardante l’attesa della fine del dolore e del Male, a cui si contrappone l’albeggiare del nuovo giorno.

Oppure il palindromo «In girum imus nocte et consumimur igni», che in italiano significa «giriamo in tondo nella notte e veniamo consumati dal fuoco» e venne attribuito erroneamente a Virgilio: in realtà è la riduzione di un pentametro del poeta latino che potrebbe riferirsi alle falene che muoiono avvicinandosi troppo alla luce di una lanterna o alle torce che bruciando nella notte si consumano fino a spegnersi – siamo ancora nel campo del dolore e della morte. Nel Medioevo, alla frase veniva assegnato un potere magico: qualora era trascritta su una pergamena e poi bruciata, permetteva di trovare la formula della pietra filosofale.

Leggende, visioni bibliche, forme letterarie. Tutte immerse nel buio della notte, simbolo misterioso, come già detto richiamo al dolore e alla morte, ma anche al gioco e al vizio. Chi vuole “brancolare nel buio”, come stiamo facendo noi ora, trova di che nutrirsi: dal palindromo pseudo-virgiliano alla leggenda popolare de la «dòna del zöch», diffusa in Valle Imagna e Val Brembana. «La donna del gioco», una regina della notte dalle dimensioni colossali e di grande bellezza, che alimentava diverse leggende dei nostri territori. Modellata e rimodellata dal passaparola delle generazioni, la «dòna del zöch» appariva come un fantasma che amava farsi beffe degli abitanti con scherzi ed enigmi.

Compariva di notte, alle persone in giro, secondo certe visioni vestita da contadina, secondo altre come una donna-fantasma alta, diafana, i capelli scompigliati, una lunga gonna nera e uno scialle a frange larghe. Al seguito, ciascuno con un sonaglio ad annunciarne la presenza, quaranta cani bianchi o sette gatti.

Il numero quaranta nella Bibbia compare spesso come periodo di prova, eremitaggio o di spurgo dal peccato (ad esempio, secondo i vangeli di Luca, Marco e Matteo, Gesù si isola nel deserto per quaranta giorni prima d’incominciare la propria predicazione alla gente). Il sette invece è così carico di simboli e ricorrente tanto nella numerologia quanto nella storia, nella mitologia e nell’alchimia da rendere difficile una sola interpretazione: possiamo dire, riferendoci ad esempio alla nostra «donna», che sette sono i vizi capitali (gola, accidia, superbia, avarizia, invidia, ira e lussuria: poi capiremo il perché di questo possibile riferimento). Il cane infine rappresenta la fedeltà (in questo caso alla «dòna del zöch»), mentre il gatto è l’essere lunare per l’eccellenza, rappresenta il femminile, la terra, il notturno (in contrapposizione al maschile-solare).

Le leggende come sempre si nutrono della cultura di un popolo e tutte queste caratteristiche “notturne” (la prova, il vizio, la fedeltà, la femminilità), fra paganesimo e cristianesimo, convergono nella domanda «Per chi éla la nòcc?» che la «dòna del zöch» pone, sempre secondo la leggenda, ad un avvinazzato di Zorzone di Oltre il Colle, ai primi segni luminosi dell’alba (dunque nel passaggio liminare fra buio e luce). L’uomo, nonostante sia segnato dall’ebrezza dell’alcol, prontamente risponde «Per mé, per tè e per chèi che pöl miga ‘ndà ‘ntùren del dé», replica che è la sua salvezza e induce la «dòna del zöch» a volare via ridacchiando – altro richiamo, quello della risata sguaiata, a tutto ciò che è malvagio e misterioso.

Tutt’altra sorte fu quella di un uomo di Serina, anch’egli sbronzo, che incontrò la «dòna del zöch» sempre all’alba su un piccolo ponte. La notte rendeva la donna ancora più bella e luccicante, vestita con del pizzo e un abito fatto di veli e trasparenze, invece della gonna nera riportata dall’altra leggenda. Simbolo evidente di malizia e lussuria, la «dòna del zöch» attirò a sé l’uomo, che le andò incontro per stringerla al proprio corpo, ma «la donna del gioco» cominciò a crescere smisuratamente, raggiungendo il cielo in altezza e divenendo sempre più diafana e impalpabile, sino a scomparire.

Entrambi gli uomini, quello di Zorzone e di Serina, pur facendo una fine differente, i «pöl miga ‘ndà ‘ntùren del dé», cioè non possono andare in giro di giorno perché la notte, tempo di perdizione dove tutto è possibile, li attrae e ne contraddistingue la sorte, là dove il buio si fa luce (e quindi la morte si fa vita), cioè all’alba, in un luogo (a Zorzone come a Serina) in cui la «dòna del zöch» compare. Usiamo la parola luogo non a caso, perché il nome «dòna del zöch» potrebbe discendere dalla parola bergamasca «löch» (luogo, appunto), alterata quindi in «döch», che ha significato sia di «luogo» che di «gioco», e successivamente in «zöch», «gioco». Di conseguenza la «dòna del zöch» sarebbe stata in origine «la donna del luogo». Quel luogo fra buio e luce in cui appariva per mettere alla prova scherzosamente l’uomo e i suoi vizi.

Tuttavia, la «dòna del zöch» non recò quasi mai a nessuno un danno vero e proprio e la sua leggenda esce anche dalla contrapposizione buio-luce pur rimanendo legata in qualche modo gli altri racconti. Era infatti un fantasma goliardico che se la prendeva anche con le donne che lavavano i panni alla fontana pubblica (come racconta una leggenda di Bedulita), bagnandole da capo a piedi e ridendone gustosamente. Altre volte al contrario era lei stessa una lavandera intenta a lavare una gonna scura, vedi una leggenda di Costa Serina nella quale la «dòna del zöch» incontrò una donna che seppe dare la risposta giusta alla solita domanda sulla notte. Ad altre donne, che non furono capaci rispondere, la «donna del gioco» tirò i panni bagnati, con tanta forza da far perdere loro i sensi. E attenzione a non disturbarla durante i suoi scherzi, pena una reazione rabbiosa: una leggenda di Zorzone narra che in una delle sue apparizioni una collerica «dòna del zöch» tirò un calcio tanto potente ad un mastello che finì all’orrido della Val Parina.

Insomma, era una burlona, ma aveva anche un bel caratterino la nostra «dòna del zöch». Era, per dirla in altro modo, un’inquieta. E forse la risposta che voleva sentirsi dire alla domanda «Per chi éla la nòcc?» rappresentava al meglio il suo carattere e quindi, in certi momenti della vita dove magari cerchiamo il buio o vi sprofondiamo dentro, anche il nostro: «Per mé, per tè e per chèi che pöl miga ‘ndà ‘ntùren del dé».

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