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Noi e le cose che ci aspettano domani, quando tutto sarà diverso

Racconto. Ogni oggetto ha tatuato sulla superficie una storia, che può essere nostra o di qualcun altro. Ora che siamo costretti in casa impariamo ad ascoltarla. E quando torneremo là fuori potremo riappropriarci delle cose che abbiamo dimenticato. Un albero, una felpa, una panchina.

Lettura 4 min.

Le cose. In questi giorni penso spesso alle cose. Ai morti ovviamente, e alle cose. Forse perché sono sicuro che le cose rimarranno qui, nonostante tutto. Anche se tutto dopo sarà diverso. Lo stanno scrivendo in tanti: crisi, rivoluzione, cambiamento dei paradigmi. Sono le espressioni che ricorrono. Chissà.

Le cose da sole nei negozi chiusi. Negli uffici. I vestiti, le scarpe. Le scrivanie, le penne, e tutto l’interminabile repertorio di oggetti schiariti al mattino e fatti scomparire alla sera. La polvere dei giorni. Le cose che non si vedono: il moto browniano delle particelle più piccole nell’aria fluida. Microscopici frammenti di ogni dove, secondo la scoperta dal botanico scozzese Robert Brown agli inizi dell’Ottocento.

Le cose adesso sono là fuori. Ma sono anche qui dentro. Forse è il momento di riappropriarcene, di salvarle dalla loro vaporosità rispetto alle nostre esistenze. La chiamano “società dell’usa e getta”. Un ribaltamento rivoluzione che ha modificato il nostro rapporto con il tempo, con gli oggetti e con il loro valore. E poi una controrivoluzione (quanto reale davvero?) che in nome della salvaguardia ambientale pratica la moderazione e il riutilizzo. Ma c’è qualcosa in più. Se le cose svaniscono come vapore, perdono la loro capacità di raccontare le nostre vite.

Guardatevi intorno: fra tanti oggetti forse inutili, destinanti all’estinzione, ce ne sono alcuni che vi possono parlare. Ciascuno di essi ha tatuato sulla superficie una storia, che riguarda il passato, e quindi il vostro presente. Come siete ora, come sarete. Sembra tutto labile in questo momento, però certi oggetti pulsano la nostra vita, non sono effimeri. Appartengono ad una nuvola di parole, quella di ciascuno, differente e intersecata alla nuvola di qualcun altro: non solo donne e uomini, ma viventi. Persone, alberi e animali fino ai più impercettibili (la storia dei batteri sugli oggetti e dentro noi: un incrocio imprescindibile). Momenti ed esperienze.

L’informatica è a tal punto filigrana del contemporaneo da essere diventata un calco esistenziale: nel cloud ci sono le nostre storie e la possibilità di una vita più densa. Pronunciata scandendo bene le sillabe. Una forma di logopedia biografica che forse aiuta a trovare un significato.

Perché le cose si portano dietro sempre un significato, anche quando per noi non hanno valore. E fra i significati, intrecciati come una rete che non finisce mai, c’è magari quel significato che vi fa alzare ogni mattina. Ben oltre il dovere morale coercitivo dell’essere bravi genitori, amanti, fratelli, lavoratori all’altezza della situazione.

Elias Canetti scrive che “C’è chi si fa illuminare da cose di poco conto, all’improvviso: meraviglioso. C’è chi è incessantemente illuminato da cose «importanti»: tremendo”. A quattordici anni comprai insieme a mia mamma una felpa gialla. Lì per lì era un vestito come tanti, magari di qualità, certamente un pochino sui generis per un ragazzo di paese che esordiva nel liceo bene della città di Bergamo. Poi la felpa gialla con gli anni diventò importante. Cosa accadde? Nulla. Se non che nel frattempo imparai a vestirmi e cambiai il ruolo della felpa, diventata il mio capo domestico per eccellenza. Anche adesso mentre scrivo, la indosso – e sono passati ventidue anni dall’acquisto. Segna il mio tempo: scrivere, leggere, ascoltare, pensare, vivere in casa. È la divisa della mia battaglia contro la noia, a favore della curiosità e di un tempo buono da fecondare. Un compito che spetta a tutti.

Fuori da una delle finestre della casa dove abito c’è un giardino. In questo giardino ci sono due alberi. Uno di questi, per chissà quale stranezza botanica, ha sviluppato due grossi rami molto a destra e molto a sinistra. Da ogni ramo partono rami più piccoli, da questi più piccoli altri rami ancora minori. Sembra un essere umano senza testa che allarga le braccia verso l’alto. Viene facile sovrapporlo all’immagine di una persona che prega. A me però sembra un uomo che si arrende. Avere una figura d’inermità in questo momento è molto utile: aiuta a ricordare la mia condizione di indifeso dinanzi a ciò che sta accadendo. È un buon viatico di consapevolezza contro la paura. È un ottimo modo per leggere la mia (nostra) condizione: prima di tutto però è una cosa, irradiante.

Arrivare ad accettare che siamo esposti di fronte al mondo e al dolore che ospita è già un buon primo passo. “L’inerme è l’imbattibile” ha scritto Massimo Zamboni. Non è un pensiero molto di moda in questo grande fraintendimento sociale della teoria dell’evoluzione di Darwin, dove adattamento significa performance e competizione, vittoria del più forte a discapito di tutto. Eppure uno dei più grandi Inermi della storia dell’uomo ha vinto. È arrivato fino a noi parlando a tutti, non credenti compresi. Che lo vogliamo o no l’Inchiodato ci inchioda. Oggetto, palpitazione, compagnia per noi tutti scompagnati. Forse allora quella cosa-albero è una specie di arborea crocifissione, parla del dolore del mondo.

Ma quali cose invece ci aspettano là fuori? Quando potremo uscire davvero, senza scappatelle, certificazioni e cavillosità burocratiche, che cosa troveremo? Il mondo (nuovo?), di cui adesso abbiamo grande nostalgia. Comprese le cose che abbiamo trascurato. Da tempo uscire significa spesso uscire da consumatori: una birra, una pizza, un’automobile come espressione personale. La chimerica assurdità dello shopping dove tanti cercano di ritrovare sé stessi. L’acquisto. La santificazione del bancomat. Non c’è nulla di male. Almeno finché regge il limite fra noi e il nostro IBAN: altrimenti è idolatria.

Prima di questa grande confusione sotto il cielo, qualcosa si stava già muovendo. Più che una decrescita felice, una decrescita del desiderio superfluo. La sobrietà che ci riporta le cose essenziali: scontiamo tutta la sofferenza e lo smarrimento, ma questa è l’occasione e forse non ce ne sarà un’altra. Torniamo ad essere cittadini umani viventi. Tre parole che vibrano di tantissimi significati. Iniziamo riappropriandoci degli spazi.

Propongo che il nostro oggetto, quando torneremo a una vita normale (quale vita normale?), sia la panchina. A suo modo un altro simbolo di inermità. Chi sta in panchina, in una partita di calcio, non è il protagonista, ma lo svantaggiato. Magari se la giocherà negli ultimi minuti, proverà ad essere l’uomo partita su cui l’allenatore non aveva puntato. Intanto però sta seduto a bordocampo per il bene della squadra, l’ha voluto il mister: fa tappezzeria e a suo modo è indifeso, con un po’ di amarezza. Pure noi sulla nostra panchina staremo inermi, però nel senso che ci troveranno ad oziare, ce la staremo godendo.

Sulle panchine oggi ci troviamo soprattutto gli immigrati. Le panchine sono un segno di civiltà, se vengono modificate per impedire alle persone di sdraiarsi siamo fuori dall’umano. Torniamo ad occuparle. Ovviamente non per scacciare chi è seduto in certe serate d’estate, dove le persone provenienti da qualche luogo sconosciuto si ritrovano per fare comunità. Proviamo a riassaporare il piacere del riposo solitario o insieme. La curiosità non morbosa né voyeuristica di osservare le persone che passano, il paesaggio, la città, i colori, le forme, il rumore o il silenzio. E parliamoci con queste culture in carne ed ossa che arrivano qui, come possibilità di incontro da non lasciarsi sfuggire.

Torniamo alla lezione spirituale delle bottiglie metafisiche di Giorgio Morandi e alle scene silenti di Dennis Hopper. Ci siamo solo noi e gli oggetti. Donne e uomini inermi, imbattibili, con le loro cose. Quelle che cantava Giorgio Gaber: “Io non so niente / Ma mi sembra che ogni cosa / Nell’aria e nella luce / Debba essere felice”, “Io e le cose”. Le cose benedette dalla luce, la loro profonda bellezza.

(foto di Pierre Châtel-Innocenti https://unsplash.com/@chatelp)

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