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«Noi coreani siamo come le erbe del prato: usciamo più forti da ogni intemperie»

Articolo. Il 3 dicembre, il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol ha dichiarato la legge marziale, scatenando proteste popolari e timori di una nuova dittatura. Revocata in poche ore, ha portato all’impeachment di Yoon. Hye-young Kim, insegnante madrelingua di coreano al liceo linguistico Falcone, evidenzia il ruolo cruciale del popolo, ispirato dal ricordo del massacro di Gwangju.

Lettura 4 min.

«Ero seduta sull’autobus, stavo tornando a casa dopo una giornata di lavoro a scuola. Volevo ascoltare qualcosa, quindi ho aperto YouTube cercando della musica. Mi sono trovata davanti la faccia di Yoon Suk-yeol con sotto la scritta “Dichiarata la legge marziale”. Era una cosa assolutamente surreale. Anzi, irreale. Ma era lì, c’era uno streaming con le notizie in tempo reale». Con queste parole, Hye-young Kim, insegnante madrelingua di coreano al Liceo Lingustico “G. Falcone” di Bergamo, ricorda quando, il 3 dicembre, il Presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol, con un discorso trasmesso a tarda notte sull’emittente nazionale YTN, ha istituito la legge marziale.

Una mossa senza precedenti nella storia della Corea del Sud democratica, imprevista dagli analisti e per certi versi ancora nebulosa, specie per chi cerca di indagare i motivi dietro le azioni di Yoon. Ciò che è certo è che il Presidente coreano aveva nel mirino il Partito Democratico di Corea , la principale forza di opposizione del Paese, che detiene la maggioranza nel Parlamento nazionale e che ha recentemente iniziato a fare ostruzionismo contro le riforme del Governo. «Attività anti-coreane e collaborazione con le Forze Comuniste della Corea del Nord», erano le accuse che Yoon muoveva contro i suoi avversari politici.

Dalla legge marziale all’impeachment di Yoon Suk-yeol

«Il nostro Presidente, la persona che oggi ci governa, ha riportato in vigore una legge che pensavamo di aver relegato ai libri di storia. È qualcosa di incredibile, nel XXI secolo», ci dice Kim. In realtà, l’emergenza è durata (relativamente) poco: «i membri dell’Assemblea Nazionale hanno reagito precipitosamente e sono subito corsi in Parlamento per revocare la legge marziale. In questo caso, credo che la possibilità di vedere le notizie in diretta sia stata utile a evitare il disastro». Infatti, il Parlamento coreano ha revocato la legge marziale il 4 dicembre, a meno di 12 ore dalla sua entrata in vigore. L’esercito, che aveva accerchiato l’edificio dell’Assemblea Nazionale, ha inizialmente dichiarato illegale il voto dei parlamentari, schierandosi dalla parte di Yoon. Per qualche ora si è temuto il peggio: il ritorno della Corea del Sud alla dittatura, da cui il Paese asiatico è uscito solo nel 1987.

Alla fine, al termine di una riunione d’emergenza, è stato lo stesso Presidente Coreano a revocare la legge che aveva emanato poche ore prima: per le 4:30 del mattino l’emergenza era rientrata, l’esercito si era smobilitato e la vita era tornata più o meno normale. Per tutti meno che per Yoon Suk-yeol, che ha dovuto fare i conti con le conseguenze della sua scellerata decisione: l’opposizione ha immediatamente presentato, a furor di popolo, una mozione di impeachment per la figura politica più importante del Paese. Inizialmente, Yoon è stato salvato dal suo partito, il Partito del Potere Popolare. Alla seconda votazione, di fronte a pressioni crescenti da parte dell’opinione pubblica, la procedura di impeachment è andata a buon fine e il Presidente coreano ha dovuto abbandonare la sua carica.

Questa narrazione degli eventi, però, mette in secondo piano una figura (collettiva) che ha ricoperto un ruolo centrale da quando la situazione è precipitata fino a oggi: il popolo coreano. «Quando la legge marziale è stata istituita, erano circa le 22:30 in Corea. A quell’ora, di solito, la gente è a casa, tranquilla. La mia famiglia, che vive in Corea del Sud, era a casa e stava per andare a letto. Quello che abbiamo visto a Seul e in tante altre città è stata una grande ansia, c’erano tantissime persone molto preoccupate», aggiunge Kim, che spiega: «credo che i primi a ribellarsi siano stati coloro i quali hanno vissuto di persona o da vicino il massacro di Gwangju del 15 marzo 1980, uno dei più gravi dell’epoca della dittatura, che fece tra le 1.000 e le 2.000 vittime». Il ricordo del regime e dei suoi morti è dunque ciò che ha spinto i coreani a scendere in piazza, prima per protestare in massa contro la legge marziale e poi per chiedere l’impeachment di Yoon Suk-yeol.

Quello che emerge dal racconto della docente di coreano del Liceo Falcone è una profonda fiducia nei confronti del popolo coreano: «Noi coreani siamo come le erbe del prato: ci calpestano, ci tagliano, il sole ci brucia e il freddo ci gela, ma usciamo più forti da ogni intemperie». Ciononostante, l’insegnante ricorda anche che «sabato 4 dicembre, verso le 9 di mattina, stavo guardando in diretta le votazioni in Parlamento contro la legge marziale: ho provato una fortissima rabbia e mi è venuto da piangere. Coloro che dovrebbero rappresentare i nostri valori li avevano messi a rischio, mentre la gente comune stava in piazza, dopo una giornata di duro lavoro, per salvaguardare la pace e la libertà che i nostri predecessori ci hanno donato versando il loro sangue».

Lo spettro della dittatura in Corea del Sud

Uno dei motivi per cui gli eventi del 3 dicembre hanno causato una vera e propria insurrezione popolare è che la Corea del Sud è diventata una democrazia solo di recente. O almeno, relativamente di recente. Per buona parte della seconda metà del secolo scorso, il Paese è stato governato da dittature e regimi autoritari spalleggiati dagli Stati Uniti in ottica anti-comunista: per questi governi, la stabilità, la crescita e la pacificazione interna del Paese erano l’imperativo per sopravvivere all’aggressivo governo comunista della Corea del Nord. L’ultima dittatura sudcoreana, in ordine temporale, è stata quella di Chun Doo-hwan, iniziata nel 1980 e conclusasi nel 1987, quando il Paese è tornato a elezioni democratiche. Chun si è macchiato di crimini efferatissimi, come il già citato massacro di Gwangju, di cui è stato dichiarato colpevole negli anni Novanta ma per il quale ha ricevuto la grazia nel 2002. Nel 1979, proprio l’imposizione della legge marziale aveva fatto da apripista per l’instaurazione della dittatura militare: per questo, da allora nessuno aveva mai provato ad attivare l’Articolo 77 della Costituzione sudcoreana.

Quando Yoon, il 3 dicembre, ha fatto ricorso alla legge marziale, moltissimi coreani hanno percepito il concreto rischio di una nuova dittatura, di nuovi massacri e di un arretramento nelle libertà e nei diritti. Così sono scesi in piazza, e se l’esercito non si fosse smobilitato nel giro di qualche ora si sarebbe rischiato un secondo massacro come quello di Gwangju, questa volta a Seul. Alcuni analisti hanno parlato degli eventi di inizio dicembre come di un esempio di quanto la democrazia coreana sia fragile, ma forse l’interpretazione corretta è quella opposta: la Corea del Sud è uno Stato a democrazia matura, e i suoi cittadini sono pronti a battersi per evitare il ritorno a un regime militare.

«Il problema è che chi riesce a diventare un politico di alto livello spesso dimentica comodamente le responsabilità del suo ruolo e comincia a pensare soltanto al suo interesse, a volte in modo totalmente assurdo», spiega Kim, che aggiunge: «l’ironia della contemporaneità è che la libertà è garantita a livelli elevatissimi, con una facilità di accesso enorme a qualsiasi informazione.
Eppure, ciò alimenta idee estreme e porta le persone a vedere il mondo in modo strettamente dicotomico. Governare il Paese in modo sano crea benefici per tutti, e senza un Paese sano non avrebbe senso per un politico mantenere il potere». Riguardo a Yoon Suk-yeol, l’insegnante non usa mezzi termini: «Il Presidente ha dimostrato a tutto il mondo la sua pericolosità. Molti coreani erano perplessi da tempo nei suoi confronti. È vero che alcuni lo hanno votato, ma trovo che non abbia voluto impegnarsi per essere un degno politico, a partire dai numerosi reati compiuti da sua moglie in cui lui stesso è stato strettamente coinvolto. Questa è la cosa più grave di tutte».

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