Viveva solo, cacciava, forse praticava un’agricoltura secondo natura, da cui traeva forza e sapienza. L’uomo selvatico è un mito che si trova fra le leggende di tutto l’arco alpino, dalla Valtellina (l’homo selvadego) alle Orobie e oltre. Una figura che si perde nella notte dei tempi, che forse non è mai davvero esistita; un semplice uomo solitario “caricato” di significati, che ha attraversato i secoli, tra credenze legate alla natura, paure, tradizioni ed epoche che innestavano frammenti della propria visione del mondo.
Ma da dove nasce un mito simile? Nella sua monumentale “Naturalis Historia” – opera che raccoglie gran parte di ciò che si sapeva del mondo nel I secolo d.C. – Plinio Il Vecchio parla degli Orobi (detti anche Orumobii o Orumbovii), una popolazione che abitava le valli bergamasche, lecchesi e comasche in epoca preistorica. Riprendendo le “Origines” di Catone il Censore (opera andata dispersa), lo scrittore romano assegnava a loro la fondazione di diversi oppida tra cui Licini Forum (l’attuale Erba in provincia di Como) e Parra, cioè Parre.
A livello archeologico, si tratta dei cosiddetti “golasecchiani”, donne e uomini di un contesto culturale in cui si è sviluppata “la Lombardia delle origini”, nel primo millennio a.C., secondo la “ Cultura di Golasecca ” (che trae il proprio nome dalla località di Golasecca in provincia di Varese). Siamo nella prima età del Ferro, in un grande territorio di circa 20.000 km², delimitato dai fiumi Po, Serio, Sesia e a nord dalle Alpi. Sappiamo tutto questo grazie a una serie di ritrovamenti sulle nostre montagne, luoghi abitati da popolazioni che nei secoli acquisirono varie influenze, in primis quelle di etnia celtica soprattutto al tempo della decadenza dell’Impero romano.
Ruvido, ma anche sapiente e coraggioso
Gli Orobi e la Cultura di Golasecca potrebbero formare l’ambiente culturale – geograficamente e temporalmente assai ampio – in cui nascono le leggende e le testimonianze che delineano alcuni tratti dell’uomo selvatico o “uomo dei boschi”: si tratta di un essere umano che si estrometteva dai centri abitati per andare a vivere nelle caverne o nelle grotte, dove ripararsi dal freddo e dalle intemperie, magari vicino ad una sorgente.
Di carattere ruvido e scontroso – come intende il detto, ormai quasi dimenticato, l’òm selvàdegh in de la caèrna – l’uomo selvatico non amava la vita sociale; la sua figura tra il reale e l’immaginario si nutriva dei culti pagani (ancora in essere nonostante la diffusione del Cristianesimo) e del frutto della fantasia di chi ne conservava e ampliava la memoria, assumendo con il passare del tempo un carattere più definito e vario, sino ad oggi.
Così secondo Umberto Zanetti, che ha raccolto cenni storici e visioni leggendarie nel suo scritto “Il mito dell’uomo selvatico nella montagna bergamasca”, “il selvatico poteva dimorare anche in una baita; a volte invece abitava in un riparo sottovento posto in un luogo difficilmente accessibile. Si cibava dei frutti degli alberi dei boschi e delle erbe, di cui conosceva bene anche le proprietà terapeutiche. Secondo alcune versioni praticava la caccia, secondo altre praticava un’agricoltura rudimentale e disponeva di un piccolo orto. Si dice che avesse un formidabile appetito. Allevava alcune capre e dal loro latte, con l’uso del caglio, otteneva il formaggio. Attento osservatore del movimento degli astri, conosceva gli effetti delle lunazioni e del succedersi delle stagioni sul mondo vegetale e su quello animale. Depositario di un ancestrale sapere esoterico, guariva molte malattie con l’imposizione delle mani o con il ricorso a formule magiche e a pratiche occulte”.
Insomma, da essere selvaggio e asociale, l’uomo selvatico nel corso del tempo assume caratteri magici e sapienziali, diventa cacciatore e (rude) agricoltore, caratteristiche che vanno di pari passo con il suo “formidabile appetito” e con un’aura di forza e coraggio: “Si aggirava sempre armato di un grosso bastone, con il quale all’occorrenza affrontava lupi ed orsi, spaventandoli, ponendoli in fuga o uccidendoli. Sapeva ricavare il carbone dalla legna ed estraeva i minerali lavorandoli con l’uso del fuoco”. La sua figura cambia con il cambiare delle età, quando la preistoria diventa storia e la leggenda riecheggia le paure dei tempi. Ma in lui vi è anche un’idea di purezza lontana dalla città e immersa in una natura non più vissuta in modo solitario ma comunitario: “Viveva in gruppi familiari numericamente poco consistenti e non aveva una vita media molto lunga. Non amava l’uso del denaro”.
“L’albero di maggio”
Capofamiglia o no, rimaneva in ogni caso un individuo piuttosto asociale: “Nei suoi rari contatti con l’uomo civile, che risaliva occasionalmente i monti a caccia di grossa selvaggina, egli si esprimeva preferibilmente per proverbi parlando in rima e si mostrava riluttante a rivelare i segreti della montagna: non diceva dove si trovavano le miniere, dove sgorgavano le fonti, in quali luoghi crescevano i funghi e i tartufi, quali animali si aggiravano nella foresta avendo ragione di temere l’invadenza di chi poteva alterare irrimediabilmente il delicato equilibrio ecologico del suo habitat”. In poche parole, un ambientalista sui generis dal carattere radicalmente ecologico.
Come dicevamo, il mito dell’uomo selvatico nasce anche dai culti pagani pre-cristiani, quando i primi abitanti europei cercavano di spiegare l’inspiegabile attraverso forme di spiritualità che avevano al centro la natura, gli animali e tutto ciò che risultava loro temibile. Da queste credenze deriva l’immagine dell’uomo selvatico che in primavera, mantenendo fede alla sua nomea di “uomo dei boschi”, appariva nei primi villaggi coperto di fronde per celebrare insieme alla comunità riti come quello dell’“albero di maggio”, secondo l’antropologo James Frazer l’antenato dell’albero della cuccagna. La credenza dell’“albero di maggio”, diffusa in tutta Europa e sopravvissuta in forma varie sino al presente, riguardava lo spirito dell’albero, a cui si chiedevano doni e benevolenza; in questo senso l’uomo selvatico diventa anche simbolo di fecondità della terra e di fortuna per il domani.
Bergamino ante-litteram
Tuttavia sono tante le leggende intorno all’uomo selvatico. Una di queste lo descrive non come un uomo scorbutico, ma come una persona bonaria, addirittura ingenua, disposta a spiegare all’uomo civile i suoi segreti. Ad esempio la lavorazione del formaggio: “per apprendere l’arte casearia i giovani degli abitati di fondovalle risalivano le montagne e andavano dal selvatico, che salutavano chiamandolo ’maestro’. Il màest selvàdegh si sedeva su di una pietra e i giovani si disponevano attorno a lui per ascoltarlo; egli insegnava loro quando seminare, quando cogliere i frutti e come conservarli, con quale luna tagliare un albero, come lavorare il legno, da quali segni (come la forma delle foglie o il volo degli uccelli) prevedere i mutamenti del tempo atmosferico, come distinguere i funghi eduli da quelli velenosi, a quali erbe ricorrere per prevenire le malattie; da lui i giovani apprendevano a curare le affezioni degli animali addomesticati, ad ottenere il miele dalle api, a lavorare il minerale di ferro, a fondere lo stagno, ad innestare le piante”.
Il film dell’“eremita” Flaminio
Quello dell’uomo selvatico è un mito che di tanto in tanto ritorna. Come nel docufilm “Zenerù”, di Andrea Grasselli, regista non nuovo ad indagare antropologicamente i riti uomo-natura del nord Italia, dove viene raccontata la vita di Flaminio Beretta, che da anni vive come un eremita in una cascina. Proiettato qualche giorno fa ad Ardesio, è stato commentato dallo stesso Grasselli come il film “di un personaggio che richiama da un lato l’Homo selvatico per la sua conoscenza della natura e dei suoi ritmi, ai quali adegua la sua esistenza e, dall’altro, Leonardo da Vinci”.
“Zenerù” racconta con realismo la vita di quest’uomo solitario e muto (nel film non parla) che alleva pecore, le tosa, si confeziona gli abiti utilizzando un telaio autocostruito e prepara con il legno gli strumenti utili a vivere, come un uomo che sembra provenire dagli ambienti rurali bergamaschi di un secolo fa. La narrazione incrocia quella della “Scasada dello Zenerù”, tradizione di Ardesio (che di solito si svolge il 31 gennaio) caratterizzata dal rumore dei campanacci che di notte accompagnano lo Zenerù, raffigurazione della stagione fredda e del male, verso il rogo. Ogni anno Flaminio Beretta costruisce lo Zenerù, come una sorta di sciamano dell’era digitale, che da radici lontanissime alimenta un rito atavico contro la malasorte. Potremmo dire che l’uomo selvatico è uscito ancora una volta dai boschi. Con le nostre paure e le tradizioni che sono il nostro spirito e la nostra identità. Ricordandoci la storia più profonda da cui veniamo, di esseri viventi a contatto con la natura, che alla natura devono la loro esistenza.