Tra il 14 e il 20 ottobre si è tenuta la XXIV edizione della «Settimana della Lingua Italiana nel Mondo». Evento piuttosto oscuro per chi vive in Italia, la manifestazione viene utilizzata dal Ministero degli Esteri per promuovere la nostra lingua all’estero con una serie di incontri, eventi e conferenze incentrati sull’italiano, sulla sua storia e, più in generale, sulla cultura e sulla letteratura del Belpaese. Quest’anno, per esempio, il tema della settimana era «L’italiano e il libro: il mondo tra le righe», a sottolineare l’indissolubile legame tra lingua e lettere. Il 2024 è il mio primo anno all’estero e, devo confessarlo, talvolta la mancanza di casa si sente: non solo di famigliari e affetti, ma anche del suono dell’italiano parlato per strada, delle decorazioni dei palazzi del centro città, degli odori dei nostri fiori e dei sapori della nostra cucina. Per questo, preso un po’ dalla nostalgia e su invito di alcuni amici, ho deciso di partecipare a uno degli eventi organizzati dalla Sezione di Italiano dell’Università di Cape Town, con la collaborazione dell’Istituto Italiano di Cultura di Pretoria e con il contributo del Consolato Italiano a Città del Capo, in occasione della «Settimana della Lingua». La mia scelta è ricaduta sull’incontro «A Journey Through Literary Italy: Words, Images and Sounds», una presentazione dell’Italia culturale e letteraria a cura degli studenti del corso di Italiano all’Università di Città del Capo, coordinati dalla lettrice del MAECI Federica Chessa. Lo ammetto: ci sono andato aspettandomi una valanga di stereotipi e di stucchevoli romanticismi nei confronti del nostro Paese. Mi sbagliavo di grosso.
Da Milano a Palermo, da Cagliari a Pompei
L’idea alla base dell’incontro era semplice: realizzare un breve itinerario lungo l’Italia letteraria, affidando agli studenti di Italiano di UCT il compito di fare da “Ciceroni” attraverso cinque città – simbolo della nostra nazione. L’aspettativa era quella di trovarmi di fronte a un road trip tradizionalissimo: Venezia, Milano, Firenze, Roma e Napoli, le stesse città che i turisti battono di gran carriera in quelle vacanze di gruppo che, nel giro di quindici giorni, percorrono lo Stivale da Nord a Sud. Primo errore: delle cinque metropoli che ho citato, l’unica toccata dal viaggio proposto dagli universitari sudafricani è stata Milano, che pure ha ricevuto un trattamento molto particolare (ne parlerò tra poco). Cagliari, Palermo, Pompei e Pisa erano le altre. Una proposta che denota una conoscenza profonda dell’Italia: lo zampino della lettrice – di origini sarde – si sentiva, ma il lavoro svolto dai ragazzi ha dimostrato, fin dal primo impatto, una visione totalmente priva di stereotipi e di pregiudizi (positivi o negativi) nei confronti della penisola. Una piacevole sorpresa, soprattutto se consideriamo che quasi nessuno degli studenti coinvolti è mai stato in Italia, e che quei pochi che l’hanno vista con i propri occhi lo hanno fatto solo brevemente.
«Sono stato in Italia per quattro giorni: ho visto la città di Venezia e basta», mi dice Nicolas, studente del primo anno che ha scelto l’italiano come sua sesta (!) lingua, accanto a inglese, afrikaans, tedesco (tutti parlati in casa), francese e cinese. «Però non so se conta: in tanti mi hanno detto che Venezia è molto diversa dal resto del Paese, è una specie di sogno a occhi aperti con i suoi palazzi e i suoi canali», aggiunge l’universitario. «Non sono mai stata in Italia, ma l’anno prossimo trascorrerò un semestre all’Università di Perugia. Studierò italiano, filosofia e francese», spiega Alethea che, a soli 19 anni, ha una padronanza della nostra lingua da fare invidia a un madrelingua e che vorrebbe iniziare a leggere Italo Calvino prima di trasferirsi in Umbria. Cosa l’ha spinta a decidere di passare sei mesi in Italia? «L’arte, la bellezza e soprattutto i palazzi: sono un’appassionata di architettura, e le città italiane sono colme di edifici bellissimi. Quando penso all’Italia penso ai suoi artisti, al Rinascimento».
Insieme, Alethea e Nicolas hanno presentato gli scavi di Pompei. Le parole che hanno usato per parlarne – pur senza averli mai vista dal vivo, vale la pena ricordarlo – erano queste: «Forse in nessun altro luogo del passato l’umanità è così ben conservata come a Pompei. La sua storia è una bellissima tragedia». La seconda frase non è farina del loro sacco: è una citazione di Curzio Malaparte , uno dei più influenti scrittori espressionisti e neorealisti italiani, vissuto a cavallo tra XIX e XX secolo. Lo conoscevate? Forse di nome, ma ci sono buone probabilità che non abbiate mai letto nulla di suo.
Per la verità, i corsi di italiano organizzati dalla Sezione di Studi Italiani dell’Università di Cape Town, alle cui attività didattiche collabora anche la lettrice MAECI, sono ben organizzati, e lo si vede sia dal numero di adesioni – piuttosto alto, se consideriamo che l’italiano non è una lingua tanto richiesta in ambito lavorativo quanto il francese, l’arabo o il cinese – che dalla qualità della preparazione degli studenti. In Sudafrica l’anno accademico inizia a febbraio e finisce a novembre, perciò i ragazzi che hanno presentato all’evento della «Settimana della Lingua» hanno poco meno di un anno di studio sulle spalle, con cinque ore di lezioni, una di conversazione e una di laboratorio alla settimana. Eppure parlano un italiano non solo comprensibile, ma anche ricco di termini forbiti e con una sintassi pressoché perfetta. Le uniche due studentesse del secondo anno presenti all’evento, addirittura, avevano quasi perso l’accento anglosassone. Al secondo anno si inizia a studiare anche la letteratura, ma lo si fa con un metodo british , per così dire. Il focus non è necessariamente sui classici: durante l’incontro non si è parlato di Dante, Petrarca e Boccaccio (i tre autori, infatti,vengono studiati al terzo anno), la cui lingua risulta quasi ermetica per un italiano, figuriamoci per un sudafricano. Al contrario, il punto di partenza sono stati gli scrittori contemporanei: Curzio Malaparte l’ho già citato, mentre le due ragazze del secondo anno hanno descritto la Sardegna con le parole di Grazia Deledda e hanno persino parlato di Michela Murgia, a dimostrazione del profondo interesse per l’attualità manifestato dai corsi universitari del mondo inglese, da cui i nostri atenei hanno molto da imparare.
Il «gees» italiano
Senza girarci troppo intorno, Pisa e Milano erano le due città più famose tra quelle inserite nel tour immaginario preparato dagli studenti e dalle studentesse di UCT. Ciò che mi ha colpito è l’approccio che i ragazzi e le ragazze hanno utilizzato nei confronti di due mete così inflazionate. Pisa, per esempio, è stata quasi derisa mostrando le foto dei turisti che fingono di sorreggere la Torre Pendente e inscenando un divertente scambio di battute tra la guida di un tour organizzato e uno dei partecipanti al suo seguito. Come a dire: sappiamo che Pisa è una città turistica, ma dietro questa facciata c’è qualcosa di più. Non nascondo di aver provato un leggero senso di vergogna quando la finta guida ha citato il Palazzo Blu , che ho dovuto cercare al volo su Wikipedia per non fare una figuraccia. La cosa peggiore? A Pisa ci sono stato in vacanza un paio d’anni fa, e del Palazzo Blu proprio non ne avevo mai sentito parlare.
Anche per quanto riguarda Milano, la rappresentazione che ne hanno dato gli studenti era disincantata, chiaroscura e tremendamente calzante. Parafrasando Moravia, il capoluogo lombardo viene descritto come «una città fredda ma piena di gente, una metropoli moderna e in continuo movimento». Parole con cui chiunque abbia avuto la (s)fortuna di trascorrere a Milano gli anni dell’università non potrà che concordare. Per una nota negativa, però, ce n’è anche una positiva, letteralmente: l’incontro si è concluso con la performance operistica di due ragazze che, oltre a studiare italiano, seguono anche i corsi di canto lirico. Sempre nella nostra lingua, ovviamente.
Alla fine della conferenza, però, c’era una domanda che mi frullava in testa. Perché scegliere un corso di italiano, che fornisce certamente minori sbocchi occupazionali di tantissime altre lingue? «Sarà un cliché, ma credo sia merito dell’”anima” italiana», riporta Nicolas, che continua dicendo qualcosa di completamente inaspettato: «Credo che ci sia anche una certa compatibilità tra gli italiani e i sudafricani. Tutti gli italiani che ho conosciuto erano persone con i piedi per terra, oneste e buone. Credo sia una caratteristica tipica della cultura italiana, al di là degli stereotipi che si sono formati attorno a essa. Io studio anche francese e tedesco, perciò sono entrato in contatto con chi queste due lingue le parla. Hanno un modo di fare completamente diverso: quello degli italiani è più sentimentale, più espressivo».
Analisi con cui concorda anche Alethea: «Credo che quello che Nicolas dice sull’”anima” dell’Italia sia vero. Il vostro stile di vita è molto genuino, molto autentico. Credo che da qui nasca la compatibilità con i sudafricani: anche noi siamo così, in fin dei conti. Nella nostra società c’è un forte senso della comunità e di rispetto reciproco, anche per via della nostra storia. In afrikaans esiste la parola “gees”, che indica lo “spirito”. Ecco, credo che quello del Sudafrica e quello dell’Italia siano affini».