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L’India ha votato. Modi ha vinto, ma la democrazia non è florida come potrebbe sembrare

Articolo. La coalizione politica indiana guidata dal BJP del premier uscente Narendra Modi ha vinto le elezioni. Un approfondimento sul funzionamento del sistema elettorale indiano (e sulle sue criticità)

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Aprile 2024, sostenitori di Modi a Chennai, India (Srinivasa-Krishnan Shutterstock.com)

La democrazia più grande del mondo ha votato. Nel corso delle ultime sei settimane, i cittadini indiani – anzi, gli aventi diritto di voto, che in India sono 970 milioni su un totale di 1,4 miliardi di persone – si sono recati alle urne in quelle che alcuni analisti considerano le elezioni più importanti del 2024. Per molti, la partecipazione popolare alla tornata elettorale è un segnale dell’ottimo stato di salute della democrazia di Nuova Delhi.

L’affluenza, in effetti, è stata molto elevata: si è recato ai seggi il 66% della popolazione , più di quanto non abbiano fatto gli italiani alle politiche del 2022 (la percentuale si è fermata al 64%). Poco meno di metà dei votanti erano donne: con 312 milioni di elettrici, il rinnovo del Lok Sabha (il Parlamento indiano) è stato il voto con la maggior partecipazione femminile della storia. Eppure, la democrazia indiana non è florida come i dati lasciano pensare. Addirittura, c’è chi fatica a considerarla una democrazia, soprattutto dopo il risultato del voto degli scorsi giorni.

Un sistema elettorale imperfetto

I governanti indiani definiscono con grande orgoglio il loro Paese come la democrazia compiuta più grande al mondo. Sulla carta è vero: l’India, infatti, ha delle strutture governative tipiche di una Repubblica parlamentare. Al centro del sistema politico si trova un Parlamento bicamerale, il Sansad, composto da una Camera Bassa elettiva (il Lok Sabha, che si è rinnovato con le elezioni appena concluse) e da una Camera Alta (il Rajya Sabha) i cui membri non sono eletti direttamente dai cittadini, ma vengono scelti dai Parlamenti dei 28 Stati e degli 8 territori federati dell’India. Ciò dà al subcontinente la forma di una repubblica federale democratica basata su un bicameralismo imperfetto.

A rendere le elezioni del Lok Sabha ancora più importanti vi è il fatto che il Primo Ministro deve godere di una maggioranza nella Camera Bassa del Parlamento per poter governare: come in Italia (per ora), il premier non è eletto direttamente dai cittadini, ma nominato dal Presidente della Repubblica (a sua volta eletto dal Sansad) e deve godere della fiducia parlamentare. Il rinnovo del Lok Sabha coincide dunque con quello del Primo Ministro in carica e del suo governo: per questo, le elezioni generali del 2024 rappresentano un tornante importantissimo per la storia dell’India moderna.

Movimentare un miliardo di persone è difficile, e il sistema elettorale indiano non è certo perfetto nell’assolvere al suo monumentale compito. Nel subcontinente non si vota come in Italia: l’election day dura sei settimane, perciò i primi indiani sono andati a votare il 20 aprile e gli ultimi si sono recati alle urne il 1° giugno. La mostruosa durata della tornata elettorale dipende in larga parte dalle enormi dimensioni – sia in termini territoriali che demografici – del Paese: per portare al voto tutti, alle scorse elezioni (quelle del 2019) il Governo ha predisposto un milione di seggi elettorali, ciascuno capace di accogliere fino a 12.000 elettori al giorno.

Per gestire così tante persone in così poco tempo occorrono macchine elettorali, scrutatori professionisti e forze di sicurezza, tutti apparecchi e lavoratori itineranti, che hanno bisogno di qualche giorno per spostarsi da una città all’altra, raggiungendo anche le zone più disperse dell’Himalaya e dei deserti del Thar e del Kutch. Inoltre, la commissione elettorale indiana organizza le elezioni in “fasi” – sette, nel 2024 – che seguono i calendari delle festività civili e religiose dei singoli stati in cui il Paese è diviso, in modo da favorire l’affluenza alle urne.

Le idiosincrasie di un sistema del genere sono evidenti. Non c’è uno stop nazionale alla campagna elettorale: se nel nostro Paese le roboanti dichiarazioni della politica si fermano il giorno prima dell’apertura dei seggi, in India ci sono elettori che si trovano sommersi di messaggi politici prima di votare, durante il voto e persino dopo aver assolto al loro dovere, in una maratona elettorale che può diventare estenuante.

I voti, poi, vengono conteggiati e rivelati tutti nello stesso giorno. In passato, i brogli documentati sono stati numerosi, soprattutto a causa del sistema di voto cartaceo: le schede che venivano “parcheggiate” negli uffici pubblici potevano essere facilmente rubate, distrutte o bruciate. In tempi più recenti, l’India ha iniziato a votare con degli apparecchi digitali chiamati Electronic Voting Machines (o EVM), che hanno completamente sostituito le schede elettorali cartacee già nel 2004, principalmente per una questione di comodità e di affidabilità nella registrazione dei voti e nella proclamazione dei risultati. Il passaggio ai sistemi elettronici – per quanto completamente offline e disconnessi da qualsiasi rete esterna – ha aumentato la possibilità di interferenze estere nei risultati elettorali: le macchine viaggiano per tutto il Paese, rischiano di rompersi e, ogni volta che vengono accese, possono essere vittime di attacchi hacker. Non è dunque un caso che, ancor prima della conclusione delle elezioni, i critici del sistema EVM avessero già iniziato a riportare casi di macchine andate distrutte (con tutti i voti registrati persi) e, soprattutto, di candidati misteriosamente scomparsi dalle schede elettorali elettroniche.

Creare un sistema elettorale privo di questi problemi e capace di portare al voto un numero così elevato di persone sarebbe un’utopia: le elezioni indiane sono imperfette, ma le loro storture sono il “male minore” nell’enorme macchina che ogni cinque anni garantisce il rinnovo dei 543 membri del Lok Sabha. Nel 2024, le due principali fazioni politiche che si contendono il Parlamento indiano sono il Bharatiya Janata Party (BJP), ovvero il “Partito del Popolo Indiano” del Primo Ministro uscente Narendra Modi, di ideali conservatori, nazionalisti e tradizionalisti induisti, solitamente collegato alle destre globali; e l’Indian National Congress (INC), anche noto come “Congresso” e che raccoglie – con la sua “Alleanza Progressista Unita” – ideologie politiche che vanno dal socialismo democratico al centrismo fino al conservatorismo moderato con tendenze nazionaliste. L’INC ha una storia molto più lunga del BJP: mentre quest’ultimo è stato fondato solo nel 1980, il Congresso è l’erede del movimento per la liberazione dell’India dal dominio britannico, nato nel lontano 1885.

Ad aggravare un quadro già di per sé ambiguo sono però stati i numerosi incidenti che si sono verificati in tutto il Paese tra una fase e l’altra della maratona elettorale. Il 19 aprile, negli stati del Manipur, del Tamil Nadu e del Bengala Occidentale ci sono state violenze tra i sostenitori del BJP e di alcuni partiti locali. Nelle fasi 2 e 7 del voto, delle fortissime ondate di calore hanno portato alla morte di quasi 50 persone in tutto il subcontinente. A maggio, quasi 20.000 persone hanno consegnato una petizione alla commissione elettorale indiana chiedendo delle sanzioni contro Modi, che avrebbe «istigato e aggravato l’odio tra fedeli indù e musulmani a fini elettorali»: l’accusa – che poi è decaduta per l’incapacità della commissione di indagare tempestivamente – è brevemente rimbalzata anche sui media internazionali.

La situazione più tesa si è però verificata nella sesta fase del voto, nella regione del Jammu e Kashmir: un campanello d’allarme per tutto il mondo, visto che India e Pakistan in passato sono quasi arrivati al conflitto nucleare per la regione in più di un’occasione. In Kashmir, i partiti locali di sinistra hanno accusato le forze dell’ordine – allineate al Governo e, dunque, al BJP – di aver arrestato in massa i lavoratori per impedire loro di andare a votare. Al contempo, un gruppo di operai ha bloccato una candidata del partito di Modi mentre si recava al suo seggio, facendo temere per la sua vita. Un altro esponente del BJP è stato arrestato con l’accusa di aver distrutto una macchina elettorale elettronica.

Il vero problema della democrazia in India

Al di là delle violenze esplose attorno ai seggi, la fragilità del sistema elettorale (e politico) indiano è stata evidenziata dalla vasta campagna di disinformazione messa in atto da Narendra Modi, dai suoi sostenitori e dal suo partito in rete e sui social network. Campagna che, non a caso, è stata definita “senza precedenti” dall’AP, che si è occupata del fact-checking delle dichiarazioni del Primo Ministro uscente – e ormai già rientrato in carica per uno storico terzo mandato consecutivo. L’India Hate Lab, un osservatorio con sede negli Stati Uniti che si occupa di analizzare le tensioni religiose e settarie nel subcontinente indiano, ha parlato di «una diffusione di fake news su vasta scala, con una promozione vigorosa di teorie del complotto che hanno ampliato le fratture sociali».

In particolare, il BJP ha portato avanti un discorso politico estremamente aggressivo, facendo leva sulla divisione tra indù e musulmani per spingere i primi a votare per i partiti nazionalisti di religione induista - ovvero la coalizione che sostiene Modi. Quest’ultimo, durante un comizio elettorale del 21 aprile, ha riportato in forma distorta alcune frasi del suo predecessore, Manmohan Singh, sostenendo che lui e il suo partito – l’India National Congress, la principale fazione di opposizione nel Lok Sabha – fossero schierati a favore dei musulmani e contro gli indù. Ancora più preoccupante è il ritorno della parola «Jihad» nel lessico della politica indiana. La guerra santa è stata invocata innanzitutto da Maria Alam, la leader del Samajwadi Party, un piccolo partito dell’Uttar Pradesh, che ha chiesto ai suoi elettori di «votare per il Jihad» in opposizione a Modi. Il BJP ha rapidamente strumentalizzato queste dichiarazioni e rovesciato la frase, usandola come arma contro i propri avversari politici, accusati di sostenere il fondamentalismo islamico.

Per queste ragioni (e molte altre, che si sono accumulate negli ultimi anni), alcuni osservatori internazionali considerano Narendra Modi e il suo BJP come la più grande minaccia per l’ordine democratico indiano. Il dato che più dà scalpore delle elezioni generali indiane del 2024, infatti, non è il totale degli elettori, né l’affluenza ai seggi o la percentuale di donne che hanno espresso il loro voto, ma il numero dei mandati consecutivi ottenuti da Modi, che con la vittoria elettorale delle scorse ore è salito a tre. Nella storia indiana, nessun altro politico ha mai ottenuto tre mandati consecutivi: solo Indira Gandhi – prima e unica donna Primo Ministro in India – è stata rieletta per tre volte, ma tra il suo secondo e il suo terzo governo c’è stato un periodo di amministrazione di opposizione lungo tre anni.

Grazie alla vittoria di questi giorni, Modi potrà governare fino al 2029, salvo stravolgimenti interni nella sua maggioranza. In questi cinque anni, ancor più che nei dieci già trascorsi, potrà cementare il suo controllo politico sul Paese, per poi tornare alla carica per un quarto mandato alla fine di questa decade, all’età di quasi ottant’anni. Le elezioni generali appena concluse sembrano dunque segnare un’involuzione autocratica anche per la “democrazia più grande del mondo”.

Intanto, i giornali e l’opinione pubblica indiana chiedono al Primo Ministro di portare avanti una nuova serie di riforme, ancora più ambiziose di quelle degli ultimi anni. Richiesta a cui Modi ha prontamente risposto: ancor prima del voto, ha chiesto al suo gabinetto di stilare un piano per i primi 100 giorni di governo, nonché uno per il quinquennio successivo e uno contenente una visione a lungo termine per la nazione, addirittura fino al 2047. I contenuti di questi programmi sono ancora avvolti nel mistero, ma ciò che è certo è che il BJP non intende lasciare il potere per i prossimi venti (e passa) anni.

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