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Le gru di Bergamo illuminate con le luci di Natale (il racconto natalizio di Eppen)

Racconto. Un racconto natalizio sugli argani con le lucine, una balena sotterranea, Le Luci della Centrale Elettrica, l’avere vent’anni, la provincia cronica e Gesù Bambino in una capanna di cemento

Lettura 4 min.

La gru era comparsa da parecchi mesi. Segnava il passaggio sulla Strada Provinciale 91. Da qualche parte un cantiere, solita edilizia sequenziale da provincia produttiva. Villette a schiera e condomini. L’ubicazione del bene in permute di terreni agricoli. Case a destra andando verso Seriate e Brusaporto, a sinistra verso Costa di Mezzate. Dall’altro lato campi coltivati, cascine, serre. In mezzo, Bagnatica, il mio paese all’inizio della bassa provincia bergamasca.

Da Bagnatica per immettersi sulla SP 91 bisogna fare una rotonda grande. Una di quelle che ti chiedi a cosa servono se la gente quando ci arriva invece di frenare accelera, perché la curva è ampia e non serve rallentare. In mezzo alla rotonda c’è un’aiuola. Un leggero avvallamento di terra e un palo della luce piantato nel mezzo, che a me è sempre sembrato la schiena di un’enorme balena sotterranea trapassata da un arpione di luce – la dimostrazione che a Bergamo c’era stato il mare e c’è ancora, almeno nella mia immaginazione: lì sotto resti di gastropodi, trilobiti e posidonie in concrezioni di pietre.
Per andare sulla Strada Provinciale 91 passi da lì. La balena, l’arpione e la vena di asfalto dritta della 91 fra i terrapieni. Bagnatica Brusaporto Seriate l’Iper oppure la superstrada: insomma il mondo.

Un giorno, sarà stato a fine novembre, la gru si era illuminata con le luci di Natale, quelle degli abeti. Balena, arpione, svolta a destra, SP 91 e la vedevi. Enorme, altissima. Illuminava la notte ed era impossibile non guardarla: un totem, una croce con un braccio più lungo dell’altro. Insomma un qualcosa di ieratico, di religioso e rappresentativo. Almeno a me sembrava questo, ogni volta la pensavo così. Un oggetto apotropaico per scacciare il maligno, cioè la mancanza di lavoro che porta via la roba e quindi il benessere. Per me la gru illuminata a Natale era quella cosa lì: l’antropologia della provincia cronica che si manifestava in tutta la sua magnificenza, come l’unico vero albero di Natale di una terra per cui il lavoro e la fatica sono religione.

Era il 2007, quella sulla SP 91 era la prima gru illuminata che vedevo. Poi ne scoprii molte altre, a Bergamo, in Veneto, in Emilia-Romagna, e una bellissima sulla tratta Milano-Torino che arrivava veloce e veloce andava via se ci passavi in treno. Lo raccontavi a un romano e non ci credeva, o ti guardava come se fossi stato una specie di aborigeno inatteso. Poi però le gru illuminate arrivarono anche lì e al Sud. Perché illuminare le gru a Natale era diventata una moda. Ma non a Bergamo. A Bergamo era ed è ancora oggi cultura, spirito del tempo. Espressione dell’anima di un territorio che sembrava subodorare la crisi dell’edilizia, in arrivo come uno tsunami che avrebbe travolto se non tutto, tanto, troppo. Una catastrofe non solo economica, ma esistenziale. Cosa rimane a un bergamasco se gli togli il lavoro?

A ripensarlo oggi il 2007 a me sembra straordinariamente lontano. In realtà sono passati solo dodici anni. Tuttavia l’accelerazione tecnologica allora non aveva ancora ribaltato le nostre vite. La recessione stava per finirci addosso – anche se non eravamo già sul crinale del baratro. E la democrazia liberale dava da tempo segni di sclerosi che in troppi avevano sottovalutato. Si parlava poco o niente di populismo, il riscaldamento globale era un tema quasi solo per specialisti ed erano distanti – ma in realtà vicinissimi, carsicamente già attivi – tutti i sintomi di quella torsione antropologica che ci avrebbe gettato in una burrasca di cui fatichiamo a capirci veramente qualcosa. Per questo la percezione del 2007, complice il fatto che avevo solo ventiquattro anni, mi rende quel periodo così distante.
MySpace in Italia cresceva vertiginosamente (quattromilacinquecento nuovi profili al giorno, uno ogni cinque secondi), Facebook nella nostra lingua sarebbe arrivato l’anno dopo con la sua invasività prorompente. Si scaricava la musica con eMule (i più scafati con Soulseek) e Spotify forse era un sogno dei più visionari. La trap rimaneva un sottogenere americano dell’hip-hop e Netflix non c’era. Apple lanciava il primo smartphone e, incredibile a dirsi, per molti esisteva ancora il grande sogno della Padania. In poche parole, non era un altro mondo, ma quasi.

Proprio un giorno di quell’anno incontrai il mio amico Giorgio Canali (al Mi Ami, se non ricordo male) che mi disse di sentire assolutamente un tale che si chiamava Le Luci della Centrale Elettrica. Mi procurai il demo, lo ascoltai e lì, in quell’estate del 2007 mi esplose davanti agli occhi la provincia. Non che prima non avessi compreso dove stavo, lo sapevo bene, quantomeno ne sentivo epidermicamente le storture e le difficoltà a viverci di un normale post-adolescente. Le parole di Vasco Brondi però – oltre a essere una delle poche cose davvero nuove dell’ultima generazione del cantautorato italiano – fotografavano i luoghi intorno a me in un modo profondamente diverso. Quelle canzoni musicalmente ridotte e cariche di parole, vittime di una grafomania eccezionalmente feconda, spremevano tutta la rabbia e la disillusione di un ventenne alternativo della provincia italiana. Ma soprattutto gettavano una visione poetica e immaginifica della provincia contro quel sentore di futuro vissuto come minaccia che io e i miei coetanei vivevamo più o meno consapevolmente.
Cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni zero?” cantava il nostro Vasco in modo un po’ nichilistico, e quel verso rappresentava non una generazione intera ma una nicchia inquieta che seguiva certa musica, guardava certi film e leggeva certi libri. Era insomma un verso generazionale, di un disco generazionale, di un artista generazionale.

Cosa c’era prima? Qualcuno ha detto che senza provincia la cultura italiana del Novecento quasi non sarebbe esistita. Quindi prima c’erano tantissime cose. Chi però stava esistenzialmente dove stavo io in qualche modo era orfano, magari non lo percepiva, ma era così. Raccontare la provincia del Paese significava ad esempio ascoltare i CCCP. E Brondi in quel demo e nel disco uscito l’anno dopo (“Canzoni da spiaggia deturpata”) era animato da una rabdomanzia incredibile se ripensata oggi. Uno spleen che lo portava a urlare nel microfono “e i CCCP non ci sono più da un bel po’”. Quello che rimaneva insomma erano solo le luci della centrale elettrica. Uniche stelle rimaste di un cielo livido che non prospettava nulla di buono, eppure rintracciava disperatamente nella provincia un’epica nuova, mai sentita prima: “Andiamo a vedere i cantieri delle case popolari / Dai finestrini dei treni ad alta velocità / Trasformiamo questa città in un’altra cazzo di città / Andiamo a vedere le luci della centrale elettrica / Andiamo a vedere le luci della centrale a turbogas”.

Le mie “luci della centrale elettrica” erano le luci natalizie della gru sulla Strada Provinciale 91. Per questo la notte di Natale di quel 2007 andammo io e la mia amica N. a fotografare la gru illuminata come se stessimo facendo la cosa più importante e intensa della nostra vita di ventenni o poco più. Il nostro Natale era in quel momento. Non i pranzi con i parenti. Non gli auguri in piazza a mezzanotte con un bicchiere di spumante sottomarca in mano e l’acidità di stomaco il giorno dopo. Non tutta la retorica consumistica delle feste. Ma una fotografia di una gru illuminata nella nostra provincia cronica, il nostro modo di dare un senso alle cose che avevamo intorno. Una geografia esistenziale racchiusa in due bracci di metallo accesi. Immaginando che là, sotto la gru, fra i plinti che la stabilizzano, Gesù Bambino avesse trovato riparo in una capanna di cemento. E invece del bue e dell’asino si sarebbe trovato vicino una balena sotterranea, che proteggeva lui e in fondo anche noi.

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