Che cos’è una notizia?
Per come l’abbiamo concepita fin qui, una notizia è un qualcosa che è successo in un momento ben preciso, in uno spazio ben preciso. Possibilmente eccezionale. Possibilmente per la prima volta. Meglio ancora, perché così vuol dire che il giornalista sta facendo il cane da guardia del potere, se è qualcosa che ti fa indignare, arrabbiare, se ti fa scoprire qualcosa che non va.
Questa idea nasce in un’era in cui la produzione e la distribuzione di contenuti informativi non erano alla portata di tutti, non erano semplici. La rivoluzione digitale ha reso produzione e distribuzione di contenuti un atto tecnico alla portata di tutti. Per questo c’è bisogno di un’informazione che si distingua dal resto.
Ma nell’idea che l’istituzione-giornalismo ha di sé, visto che il digitale lo consente, non solo la notizia continua ad avere tutte le caratteristiche di cui sopra. È diventata anche un oggetto che richiede un continuo aggiornamento, in tempo reale, mentre le cose accadono.
Se pensiamo che una notizia sia questo, allora non possiamo lamentarci più di tanto di come si sono comportati i giornali nei confronti dell’“emergenza-coronavirus”.
Ma il mondo è cambiato da quando è uscito il primo giornale. E se tutto è eccezionale, incredibile, se tutto accade “per la prima volta”, c’è una realtà, là fuori, completamente sottorappresentate. Allora, forse, bisognerebbe rivedere quanto fatto fin qui da un altro punto di vista. Quello delle lettrici e dei lettori.
Pensiamo al nuovo coronavirus.
C’è una regola fondamentale che riguarda la comunicazione e l’informazione in una zona in emergenza. La regola dice che la popolazione protagonista di una situazione d’emergenza (reale o potenziale) è sempre e comunque coinvolta emotivamente.
Un conto è raccontare su un giornale italiano un evento lontano nello spazio. Come, ad esempio, l’emergenza per il contagio in Cina. Un conto è se la medesima situazione si presenta in Italia. Non tanto per il modo in cui lo si fa ma, per gli effetti che ha: mentre i nostri giornali raccontano i contagi, lo stanno facendo a persone che sono interessate direttamente da quel che succede.
Nei primi cinque giorni dell’emergenza coronavirus dalle nostre parti è successo un po’ di tutto, sui media. Sono letteralmente volate parole grosse.
Panico, paura, si leggeva in titoli di carta e online. Partiva il conteggio dei contagiati. Quello dei morti. Facevano la loro comparsa le testimonianze emotive. Le homepage di molti quotidiani si accendevano di toni del rosso, la dimensione dei caratteri con cui venivano scritti i titoli aumentava, apparivano pallini rossi e fascette lampeggianti (rosse anch’esse) che richiamavano sì, da un lato, l’attenzione. Ma dall’altro contribuivano a dare un nome ben preciso – quello più deteriore – a quella sensazione surreale e di incertezza che c’era nell’aria. Le eccezioni, come ad esempio le foto degli scaffali dei supermercati vuoti (incuranti del fatto che di lì a poco sarebbero tornati pieni), le poche persone con mascherine addosso, diventavano iconograficamente la componente fondamentale della narrazione visiva di questa storia. Con una potenza dirompente.
Persino le mappe sembravano pensate per esser portatrici di panico. Michela Lazzaroni, information designer, ha fatto notare, in un interessante thread su Twitter, che “c’è un divario fra ’il rischio’ e ’la percezione del rischio’ che non si può eliminare del tutto”. La mappa più diffusa nella comunicazione della situazione in tutto il mondo è la Johns Hopkins. Usata da tutti i media, ha sfondo nero e cerchi rossi. Che “sono una ’scelta grafica’: potrebbero ’significare’ qualsiasi cosa, anche il numero di coniglietti per Paese, ma ’comunicano’ pericolo e morte”, scrive Michela. “La narrazione nero-rosso ha una potente area semantica negativa: Darth Maul, Freddy Krueger, la Nazione del Fuoco, HAL 9000”.
Come se non bastasse, questa mappa propone nella dimensione dei pallini che indicano le aree di contagio un effetto cumulativo. E non si va, per esempio, per sottrazione con i casi guariti, che pure sono numericamente indicati a destra, in verde. “La drammatizzazione del fenomeno ne determina la percezione”, conclude Michela. “E non è mai casuale, è una scelta (grafica in questo caso, ma vale anche per quella verbale, testuale, sui giornali, da parte dei politici). Serve responsabilità da parte di chi comunica”.
Sui vituperati social network, in molti abbiamo cercato di far notare ai giornalisti (sì, ai nostri colleghi) che si poteva fare diversamente. La risposta più gettonata era una motivazione tipo: “Se chiudono addirittura le scuole, se non fanno fermare i treni in alcune stazioni, se il panico c’è, noi cosa c’entriamo? Dobbiamo darne conto”.
Però si può comunicare in maniera diversa. Si può, per esempio, seguire un protocollo per evitare l’enfasi emotiva. Si può spiegare che, in una situazione di enorme incertezza, il compito dei decisori è difficilissimo (non è un caso il fatto che, in certe situazioni, prima si accusi di non aver fatto abbastanza, poi di aver fatto troppo). Si possono raccontare le misure preventive come un qualcosa di necessario per quanto fastidioso. Si può immaginare un racconto di un problema con proposte di soluzione e uso di termini adeguati alla prima necessità: informare i cittadini perché prendano decisioni consapevoli. Lo “stato d’emergenza” contiene al suo interno dei termini che fanno paura da soli: l’invito che si è fatto da più parti a tutto l’ecosistema mediatico è stato quello di spiegare bene le ragioni di alcune decisioni e i termini più gettonati e spaventosi. Come “zona rossa”, per esempio.
Porsi questo tipo di problemi è essenziale nell’era contemporanea della sovrabbondanza dei contenuti e dell’infodemia, neologismo recentissimo – e proprio correlato all’informazione sul coronavirus – che ha già dignità di una sua voce sulla Treccani.
L’invito alla prudenza, all’uso di toni più consoni alla creazione di un anticorpo contro la paura, in qualche modo, hanno funzionato. In meno di tre giorni si è passati dal conto dei contagiati a quello dei guariti, nei titoli. E dal panico all’esaltazione di chi non ha paura. Dai titoli rossi a quelli in colori più pacati, dall’uso della parola emergenza a quello della parola allarme, fino ad un più sobrio Coronavirus in Italia.
Pensandoci bene: cosa vorrebbero i cittadini dalle loro fonti di informazione di riferimento? Informazioni chiare, numeri d’emergenza da chiamare in caso di bisogno, spiegazione delle regole da seguire in maniera semplice, non burocratese, un tono di voce pacato, competente, consapevole. Nessuno vuole davvero avere paura. Nessuno si farebbe operare da un chirurgo che si emoziona alla vista del sangue. I giornalisti non dovrebbero emozionarsi alla vista dell’emergenza (ma sono umani e quindi per imparare a farlo devono avere un addestramento specifico che spesso manca).
Il problema, se vogliamo, sono gli effetti sul lungo periodo di questo tipo di cambiamenti repentini. In un contesto di continuo calo della fiducia nei confronti dei media – si veda il rapporto Edelman 2020 – l’ansia che si genera con gli aggiornamenti ora per ora rende le persone più ciniche, più divise, più spaventate. Non soltanto per il coronavirus o per i potenziali contagi. Per tutto. E il cambio di narrazione genera confusione. Il pubblico tenderà a chiedersi perché prima si parli di panico e poi si smorzino i toni. E a fidarsi sempre meno.
Il vaccino contro il panico, allora, potrebbe partire proprio dai giornali, che hanno un’occasione straordinaria davanti. Ora sappiamo quanto siamo fragili come comunità di persone, di esseri umani. Sappiamo come potremmo fare la prossima volta e come si potrebbe fare anche in tempo di pace. Invece di scegliere attentamente il nostro prossimo problema, quello da enfatizzare, potremmo iniziare a proporre con cura informazioni pacate e soluzioni.
Il che non significa raccontare buone notizie e basta. Anzi. Per esempio, in una situazione di emergenza è ovvio che si debbano monitorare le ordinanze, gli interessi politici, quelli economici. Ma si può fare essendo costruttivi per i cittadini. Aiutare le persone a essere più informate, a capire un po’ di più il mondo dei media, ad avere uno sguardo meno enfatico sulla realtà è un anticorpo straordinario.
Lettrici e lettori dovrebbero pretenderlo.