Notte tra il 2 e il 3 novembre. Mentre la città di Valencia e il suo circondario si trovano a fare i conti con un’alluvione senza precedenti, tanti giornali italiani pubblicano una notizia agghiacciante: il parcheggio sotterraneo del centro commerciale di Bonaire, ad Aldaia, si sarebbe trasformato in un «cimitero», per citare le parole di un sommozzatore.
Alcune testate - nostrane ed estere - hanno parlato di almeno 700 morti all’interno del silo interrato, dato ottenuto sulla base del numero di biglietti d’ingresso staccati e mai pagati dagli automobilisti. La dinamica degli eventi è stata chiara fin da subito. Il parcheggio avrebbe iniziato a riempirsi d’acqua proprio mentre i clienti del centro commerciale - regolarmente aperto, perché a Valencia lo stato di allerta è stato approvato troppo tardi - avrebbero capito di trovarsi in pericolo e sarebbero corsi alle proprio auto per tornare a casa. La struttura sarebbe rapidamente finita sott’acqua, senza lasciare alcuna speranza ai tanti guidatori che si erano messi in coda per uscire. Una ricostruzione tutto sommato logica, anche perché le situazione nella Comunità Valenciana è apparsa fin da subito critica. Eppure, a 48 ore di distanza dall’allarme sappiamo che nessuno è morto nel parcheggio di Aldaia e che i giornali hanno preso una macabra cantonata. Come è stato possibile?
Una catena di errori
Difficile parlare del caso di Aldaia come di una fake news vera e propria: nessuno ha messo in circolazione la notizia con dei fini politici precisi. Semmai, si è trattato di una lunga sequenza di errori da parte di tutta la catena di professionisti coinvolti nella trasmissione della notizia. La parola “cimitero” è stata pronunciata da uno dei sommozzatori dell’Unidad Militar de Emergencias (UME), accorsa a verificare l’accaduto ed estrarre le possibili vittime. La frase completa era: «quel parcheggio è un cimitero». Con queste parole, il sub non voleva fare riferimento al reale numero di decessi, ma al fatto che se qualcuno fosse rimasto intrappolato nel parcheggio, sarebbe sicuramente morto per via del livello dell’acqua e della quantità di tempo passato prima dell’intervento dei soccorsi.
Per altre testate, delle parole così forti dipenderebbero semplicemente da un errore di percezione: l’angoscia, la paura e il fatto che, effettivamente, nel silo ci fossero ancora tantissime macchine avrebbero fatto pensare al peggio a chiunque. E dobbiamo ricordare che nessuno si aspettava una catastrofe come quella che si è verificata a Valencia. Emotività, suggestione e incomprensioni - dettate anche dalla fretta di dare la notizia - hanno tutte giocato un ruolo nel produrre la “tempesta perfetta” di disinformazione.
Tutta colpa di un sommozzatore, quindi? Assolutamente no. I giornali non si sono certo inventati le sue terribili dichiarazioni, ma resta tutta farina del loro sacco il potenziale numero dei morti. Lo sappiamo per un motivo molto semplice: il parcheggio del centro commerciale di Aldaia era gratuito, e non a pagamento. E, a pensarci bene, l’idea di dover pagare solo per fare shopping appare un po’ strana: i parcheggi dei supermercati sono (quasi) sempre gratuiti. Facile dirlo a posteriori, a mente lucida. Nella foga del momento, nessuno ha fatto caso a un dettaglio apparentemente secondario. Ciò che non si capisce è da dove salti fuori quel “700” che indicherebbe il numero di posti auto del centro commerciale. Se fosse stato inventato di sana pianta, bisogna capire chi si sia preso la responsabilità di “sparare” una cifra a caso. Se fosse il frutto di consultazioni con i clienti abituali, invece, viene da chiedersi come sia stato possibile che quelle stesse persone che hanno fornito un numero più o meno accurato non ricordassero di non aver mai pagato per parcheggiare la propria auto. Anche qui, però, è difficile vedere malizia e opportunismo nell’accaduto: potrebbe essere stata una catena di errori di comunicazione e di leggerezze, dovuta alla necessità di dare la notizia il più in fretta possibile.
Il ruolo delle agenzie di fact-checking
D’altro canto, nel giornalismo il tempismo è ormai fondamentale (purtroppo, viene da dire). Ma c’è chi dovrebbe limitare queste storture della stampa. Stiamo parlando delle agenzie di fact-check e dei fact-checker professionisti. In Spagna, il Reporter’s Lab della Duke University - la fonte più autorevole nel mondo della verifica delle informazioni, che censisce ben 500 organizzazioni in tutto il mondo - ne conta otto: sei sono a Madrid, due sono a Barcellona. Come funzionano queste organizzazioni? Senza scendere troppo nello specifico, il fact-checking è un processo tanto lungo quanto meticoloso di verifica che tutto ciò che viene scritto in un articolo di giornale corrisponda al vero. Per esempio, di fronte a ogni dichiarazione il fact-checker ha il compito di assicurarsi che essa non sia solo vera, ma anche completa: se il giornalista omette dei dettagli importanti o delle informazioni di contesto che possono cambiare il senso di quanto riportato, chi si occupa della verifica deve sottolinearlo, “bacchettando” lo scrittore e riportando le dichiarazioni al loro significato originario. Ma non è questo il caso, perché le parole del sub sono state riportate più o meno fedelmente.
Quello dei fact-checker è un approccio in massima parte boots on the ground : per verificare le informazioni bisogna essere lì, sul posto; bisogna essere presenti durante le interviste o poter contattare chi le ha rilasciate per capire se le parole riportate siano corrette. In generale, il mantra del fact-checker è «il giornalista è il tuo nemico» : a dirlo non siamo noi, ma Edward Kennedy , il fondatore del TIME - il giornale che iniziò a verificare in maniera scientifica e organizzata le notizie nei lontani anni Venti. Le agenzie di fact-checking devono dunque partire dal presupposto che il giornalista sia pigro, poco interessato ai fatti o alla verità e naturalmente tendente alla mistificazione, vuoi per scopi politici o semplicemente per chiudere velocemente il pezzo e mandarlo in stampa. Per questo, i giornalisti infarciscono i loro pezzi di inesattezze, sperando di “farla franca” sfruttando il loro capitale di autorevolezza presso i lettori.
Detto così, sembra che fact-checker e giornalisti siano quasi avversari. Le cose stanno diversamente: quella di Kennedy è una dichiarazione di principio, con la quale il fondatore del TIME invitava i suoi collaboratori a non dare nulla per scontato nelle loro analisi e a dubitare di ogni singola parola. I giornalisti non sono cattivi. Ma meglio andare sul sicuro: tutto ciò che scrivono deve essere valutato, senza superficialità. Per chi se lo domandasse, in Italia la Duke University censisce quattro agenzie di fact-checking (tutte con sede a Milano), ossia Bufale.net, Facta, Pagella Politica e la sezione Fact Checking di Open, gestita da David Puente. Manca la sezione di verifica delle informazioni dell’ANSA, ma più o meno ci siamo.
Il fact-checking delle alluvioni in Spagna
Ma dove erano le agenzie di fact-checking mentre le testate spagnole (prima) e internazionali (poi) dicevano al pubblico che a Valencia c’era un parcheggio sotterraneo in cui erano morte centinaia, se non migliaia di persone? La risposta l’abbiamo già data: sei erano a Madrid, due a Barcellona. Nessuna si trovava a Valencia, anche perché non c’era un singolo spagnolo che si aspettava una catastrofe metereologica come quella che infine si è verificata. Lontane dal territorio colpito dalle alluvioni, le agenzie ci hanno impiegato giorni a verificare che le notizie che arrivavano dai reporter dei maggiori quotidiani fossero corrette o meno. Così, gli articoli sul “cimitero” di Valencia sono sì stati sbugiardati, ma solo tra il 4 e il 5 novembre, quasi 48 ore dopo la loro pubblicazioni sui principali quotidiani online della penisola iberica. Peccato che, già nel pomeriggio del 3 novembre le autorità locali di polizia di Valencia avessero smentito la ricostruzione della stampa, proprio per via della già citata incongruenza sui ticket di ingresso del parcheggio.
Ormai, però, il danno era già fatto: il “cimitero di Aldaia” è diventato una delle notizie di punta in Spagna in Europa e nel mondo. Poco importa se non è mai esistito. E dalle inesattezze alle fake news fatte e finite il passo è breve: la retorica del “cimitero” è stata presto ripresa dai partiti di estrema destra, i quali, noncuranti del fatto che di croci ad Aldaia non ce ne fossero, l’hanno usata per fomentare una (letterale) macchina del fango contro il governo socialista di Pedro Sánchez e persino contro la monarchia di Madrid. Quali saranno gli effetti di lungo periodo di una parola sbagliata nel momento sbagliato, insomma, lo vedremo solo nei prossimi mesi.