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La pazienza che ci vuole quando l’amore è a distanza (di sicurezza)

Racconto. Io sono qui, in Italia. Lui, italiano, è in Francia per lavoro e torna ogni tanto. La nostra storia ha un conteggio chilometrico abbastanza importante. Ma ci ha insegnato parecchie cose, e ora che non si può uscire di casa siamo più preparati di altre persone

Lettura 6 min.

So che di questi tempi è diventato mainstream, ma a questo giro non scomoderò il romanzo di Gabriel García Márquez, quindi tirate pure un sospiro di sollievo. Semplicemente vi parlerò d’amore e di distanze, senza la pretesa che vi riconosciate in ogni parola e al di là di ogni tentativo di insegnarvi qualcosa che già non sappiate. Lo farò nell’unico modo che conosco. Attraverso i miei occhi.

La prima volta che mi sono innamorata per finta

Ho sempre avuto un rapporto complicato con l’amore. Molte bambine si innamoravano dei principi, io avevo occhi solo per il sorcio antropomorfo marziano dei Biker Mice da Marte.
Quando poi a otto anni le compagne di classe mi domandarono se preferivo morire o fare l’amore con Leonardo di Caprio (due anni prima era uscito il colossal “Titanic”) risposi senza indugio “morire”. Perché questo amore doveva essere davvero una cosa terribile o disdicevole se l’alternativa era una prematura dipartita.

Poi venne la quinta elementare e con lei anche l’insistente domanda.
Chi ti piace?” “Nessuno” “È impossibile. Dai, chi ti piace?

Ma cosa se ne fa una personcina di dieci anni di un fidanzatino io non l’ho ancora capito. Fatto sta che alla ventesima domanda, per evitare derisioni o scocciature, mi giocai la carta del (di) capr(i)o espiatorio. “Va bene, mi piace lui”.

E lui era il compagno di classe carino più gettonato dalla combriccola di femmine delle due quinte. Il problema è che glielo dissi in faccia, con tanto di indice puntato, durante una ricerca di gruppo sulla Grecia. Però da quel momento gli animi si placarono ed ebbi la possibilità di tornare a occuparmi delle cose davvero importanti della vita. Ovvero giocare, disegnare, fare i compiti e mangiare il gelato al fiordilatte all’Iceland.

Ps: scusa ancora Leo.

Chi mi ama mi segua

Primavera 2018. Giovanni mi ha annunciato di aver ricevuto un’offerta di lavoro. Felicità! Poi ovviamente in mezzo alla mia fronte troppo spaziosa è piombato un ma, seguito da un “dovrò trasferirmi in Francia per due anni a partire dal prossimo febbraio” ed è subentrato lo sconcerto. Colpo di scena.

Lui era da poco tornato da quattro mesi di dottorato in Danimarca. Io mi ero appena laureata e nella mia testa (forse egoisticamente) contemplavo un futuro fatto di convivenza, un gatto e tante cose belle. Non mi illudevo certo di vivere una situazione di stabilità totale, ma dopo sette anni di relazione semplicemente mi ero figurata un piano. Insieme. Semplice e lineare.

L’unica cosa che ho capito in quel momento è che, per quanti piani uno possa farsi, la vita trova sempre il modo di essere sorprendente. Intendiamoci, non è una tragedia. Ma non sono una di quelle persone che pensa che l’amore a distanza nobiliti il sentimento e doni quell’innata capacità di valorizzare ogni singolo attimo passato insieme. Semplicemente, se capita si hanno due possibilità: adattarsi o voltare pagina.

Una volta accettato il compromesso, il vero problema diventa l’incertezza. Quella domanda insistente sul fondo dell’animo che ti ripete: e poi?
Così, per quello strano scherzo psicologico che ti porta ad aprirti maggiormente alle persone che conosci da poco, rivolsi i miei dubbi alle colleghe bidelle (al tempo lavoravo part-time in un asilo e ricordo quei pomeriggi con una dolcezza infinita). Il resoconto?

Se lo ami davvero seguilo
E perché non ‘se mi ami davvero resta’?

Nessuno ha mai saputo rispondermi.

(Non) ti capisco

Ti capisco, anche io ho sentito terribilmente la mancanza della mia ragazza quando è andata in vacanza per tre settimane”.

Per una strana ragione, dopo la partenza di Giovanni diverse persone hanno cominciato a rivolgermi frasi di questo tipo, che ho sempre interpretato come un tentativo tenero e un po’ goffo di dimostrarmi solidarietà. Ogni tanto mi piacerebbe ribattere che non mi sento capita fino in fondo e che non c’è niente di male a non comprendere. Per paura che ci rimangano male, alla fine ci ripenso e mi autocensuro.

Non dico che sia impossibile provare empatia per una situazione che non si vive sulla propria pelle direttamente, ma è difficile comprendere certe dinamiche. Per esempio, ogni volta che rivedo Giovanni dopo diverso tempo, devo rieducarmi un po’ a tutto: alla forma del corpo quando lo abbraccio, a non riempire i mobili e sedie di libri o vestiti impilati, a inciampare nelle sue ciabatte lasciate in giro per casa, a cosa comprare quando vado a fare la spesa e a tanti altri piccoli tic. Quando invece se ne va, devo imparare da capo a convivere col vuoto che lascia. Perché la mancanza è molto più di una polvere eterea adagiata sugli oggetti, è una questione decisamente fisica e ingombrante.

Nella mia cerchia di conoscenze a dire il vero ci sono diverse persone che hanno avuto o hanno una relazione a distanza. Non so se vivano le mie stesse dinamiche interiori, ma nei loro confronti avverto una sorta di fratellanza, vera o presunta che sia. Una connessione, un senso di appartenenza profondo e per molti versi intimo, una tacita intesa.

È bello, perché quando parlo con loro mi sento davvero capita. Anche senza bisogno di specificarlo.

Tutto per un cesto di mollette

L’ultima volta che ho visto Giovanni è stata una mattina di febbraio, poco dopo il suo compleanno. L’ho accompagnato all’aeroporto di Orio al Serio e stranamente era lui il più abbacchiato tra i due. Salutandolo, ho capito quale faccia immaginava Guareschi per Don Camillo quando scriveva del suo “magone grosso così”.

Per conto mio, sull’uscio di casa ho trovato un principio di tristezza in fondo all’anima ad aspettarmi, insieme al regalo che avevo ordinato per il suo compleanno: l’ultimo cd dei Pinguini Tattici Nucleari. In questo senso, ho sempre un tempismo perfetto.

Il pacco con il tuo regalo è arrivato proprio oggi che sei partito, uffa
Non preoccuparti, tu aprilo e ascoltalo pure
No no, ci mancherebbe, lo lascio qui per quando torni
Tranquilla comunque, ci vediamo a fine mese per il concerto

Il 29 febbraio mi sembrava un giorno promettente per vedere un concerto. Mica potevo sapere che sarebbero seguiti giorni di appuntamenti mancati. Appuntamenti che si sono tradotti nel cd ancora inscatolato, nei libri della biblioteca da riconsegnare e nel pacco da cento mollette non pervenuto durante i giorni di razzia.

È andata più o meno così: nel momento in cui qualcuno (io) si trasferisce in una casa nuova pensa a mobili, padelle, piatti, posate, asciugamani, tappeti e così via. Ma nessuno inserirebbe nella lista le mollette del bucato. Quindi quando ho visto sul volantino della Lidl il cestino da cento pezzi non ho saputo resistere e il sabato mi sono fiondata a comprarle. Appena arrivata ho capito che qualcosa non andava: i banchi dell’ortofrutta erano completamente vuoti, i frigoriferi con la carne pure e delle mie mollette nemmeno l’ombra. Il resto lo sapete meglio di me.

Dopo pochi giorni hanno cominciato ad annullare tutto: eventi, appuntamenti, spettacoli, serate e poi anche il concerto del 29. A quel punto non c’era molto da fare e ho suggerito a Giovanni di non tornare per paura che lo trattenessero in Italia.

Da allora gli hanno cancellato tre voli, tra cui naturalmente quello di rientro per Pasqua.
Dopo oltre un mese, comincio seriamente a chiedermi quando ci rivedremo.

Questione di genepì e di pazienza

Ma tu come fai con questa storia che non si può vedere il proprio partner? Io impazzisco”.

Questa domanda mi è caduta in mano tre giorni fa e mi ha fatto sentire un po’ la consulente mancata delle relazioni a distanza. Niente processi ascetici o meditazioni sulla vita comunque. Semplicemente dopo una prima fase di crisi, ci ho fatto l’abitudine. Pur nel movimento oscillatorio tra l’ottimismo totale e il melodramma tipico delle persone naturalmente inclini alla malinconia come me. Il che non significa subire passivamente, ma cercare di rielaborare i propri sentimenti in modo costruttivo.

Devo dire però che la situazione attuale ha dato alla nostra relazione a distanza una prospettiva e un sapore completamente nuovi. Che il/la moroso/a viva a centinaia di chilometri o nel comune vicino poco cambia se non puoi uscire di casa. Inoltre, rispetto a tante altre persone che si sono ritrovate separate dai propri cari, abbiamo un paradossale vantaggio: sappiamo come gestire la cosa.

Ultimamente mi è capitato di ripercorrere con la mente il ricordo dell’amore tra i miei genitori e mi sono resa conto di quanto siamo sfacciatamente fortunati. E di quanto rumore facciamo per nulla.
Anche loro per un periodo hanno vissuto una relazione a distanza. Erano gli anni Ottanta, il babbo era partito per fare l’obiettore di coscienza in Piemonte, mentre mamma era rimasta a casa a lavorare. Ai tempi per ogni chiamata era necessario accordarsi in maniera preventiva e le conversazioni si limitavano a una volta alla settimana quando andava bene: estate o inverno, neve o sole, nel giorno e all’ora stabilita scendevano alla cabina telefonica e si scambiavano due parole.

Per tutto il resto c’erano le lettere: mamma ne scriveva tantissime, mentre per papà rappresentavano uno scoglio immenso. A testimonianza del suo dramma, conserviamo ancora oggi una foto di lui seduto sul letto, gambe incrociate, penna in mano, volto concentrato e una bottiglia di genepì per farsi coraggio, come ricorda una simpatica annotazione scritta a mano.

Un’immagine che mi ha aiutato a dare una risposta alla domanda qui sopra. Perché in fondo per me la ricetta per “sopravvivere” a una relazione a distanza non è altro che questo, a prescindere dal volto che l’amore ha: un compagno, un familiare, un amico o un collega.

Tanta fiducia, molta pazienza, un po’ di spirito di sacrificio, coraggio quanto basta. E ovviamente l’amore, che non deve mai mancare. Poco importa che assuma la forma di una bottiglia di genepì e di una lettera stropicciata nel tentativo di trovare le parole giuste.

(foto di Marta Belotti)

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