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La nazionale della Repubblica islamica, non degli iraniani

Articolo. La squadra di calcio iraniana ha perso 6-2 contro l’Inghilterra nella sua prima partita nella Coppa del Mondo 2022 in Qatar, la sconfitta più pesante subita dall’Iran nella storia della competizione. All’inizio della partita nessuno dei calciatori iraniani ha cantato l’inno della Repubblica islamica – e la televisione iraniana ha censurato il segmento e mostrato altre immagini. Ma non cantare un inno che non rappresenta il popolo ma la Repubblica islamica non basta. E questo la gente iraniana lo sa bene

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I giocatori dell’Iran si preparano alla partita contro l’Inghilterra (EPA / Rolex dela Pena)

Sheghi Papavero («Papavero» è la traduzione in italiano del cognome) è una donna iraniana, nata a Teheran, che dal 2011 vive a Bergamo. Da quando è iniziata la protesta in Iran contro il regime degli ayatollah, è una delle principali attiviste che tengono alta l’attenzione nella nostra città, che da anni ha accolto una comunità iraniana molto numerosa.

Forse non tutti sanno che alcuni spettatori iraniani allo stadio in Qatar hanno fischiato l’inno della Repubblica islamica e hanno esposto la bandiera del leone e del sole (l’ex bandiera dell’Iran prima della rivoluzione del 1979). Poi, durante la partita, dagli spalti si sono sentiti tifosi gridare «vergogna», «traditori» all’indirizzo dei giocatori, e lo slogan «No alla dittatura», mostrando cartelli con scritto « Donna, vita, libertà », uno degli slogan più ricorrenti in questi mesi di proteste.

Secondo i video di amici che vivono in Iran, la gente in Iran ha applaudito dopo i gol dell’Inghilterra, scandendo al contempo lo slogan come «No alla dittatura». In altri video si vedono iraniani in Qatar che ballano con le bandiere del leone e del sole durante l’intervallo della partita, mentre sul terreno fuori dallo stadio Al-Khalifa di Doha, sede della partita Iran-Inghilterra, la canzone «Shervin Hajipour» di DJ Baraye veniva suonata per i fan.

Dopo la partita, persone in diversi quartieri di Teheran hanno scandito slogan antigovernativi e anti- calciatori. La gente iraniana ha infatti definito questa squadra «la nazionale della Repubblica islamica», non la nazionale degli iraniani. A differenza delle precedenti edizioni dei Mondiali, non ci sono giornalisti della televisione della Repubblica islamica in Qatar per una decisione presa dal governo iraniano. Il motivo è che il regime ha paura che i giornalisti possano parlare contro di loro e ha deciso di non correre rischi. La scorsa settimana il governo del Qatar ha anche revocato i visti a molti giornalisti iraniani che vivono all’estero, aiutando così il governo iraniano nel suo obiettivo di mettere a tacere in Qatar la voce della rivoluzione iraniana.

Ma perché il popolo iraniano è felice della sconfitta della squadra di calcio iraniana contro l’Inghilterra? Perché gli iraniani all’Al-Khalifa Stadium di Doha hanno urlato in modo incessante «vergogna» per novanta minuti quando l’Iran giocava contro l’Inghilterra? Perché gli iraniani che vivono fuori dall’Iran non sono contenti delle foto della nazionale sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo e degli elogi del mondo per il coraggio dei calciatori nel non cantare l’inno?

Per rispondere a queste domande, dobbiamo affrontare ciò che è accaduto in Iran negli ultimi due mesi. Nell’estate di quattro anni fa, la squadra nazionale di calcio iraniana ha raggiunto la più grande manifestazione di calcio al mondo per la quarta volta nella sua storia e per la terza volta consecutiva (i Mondiali in Russia nel 2018 e quelli in Brasile nel 2014). Dopo una buona prova della squadra nei Mondiali brasiliani, nel 2018 la nazionale sperava di superare il girone eliminatorio in Russia e qualificarsi per i turni successivi.

Uomini e donne, bambini e anziani, da un piccolo villaggio vicino al Mar Caspio alle strade eleganti e moderne di Teheran nord, da una minuscola isola nel Golfo Persico a un paesino nel deserto iraniano, tutti sapevano gli orari delle partite dell’Iran nel 2018 e sognavano che la nazionale avrebbe fatto la storia del calcio iraniano. Ottanta milioni di iraniani credevano in quella quadra e tifavano con il motto «80 milioni di persone, una nazione e un battito». Le persone stanche di slogan vuoti, cui non seguono mai fatti concreti, volevano dimenticare tutto per novanta minuti e guardare lo spettacolo dei ghepardi iraniani per provare la gioia di correre veloci con loro.

Quando il Mondiale 2018 finì, la nazionale era più rispettata che mai, poiché era stata vicinissima a superare il turno se non fosse stato per l’occasione fallita da Mahdi Tarmi nei minuti di recupero di Iran-Portogallo, finita 1 a 1, con l’Iran eliminato per un soffio. Ma il calcio è imprevedibile, un piccolo dettaglio di un secondo può cambiare tutto e forse è proprio per questo che è lo sport più popolare nel mondo. Tuttavia al ritorno in patria i calciatori della nazionale che non riuscì a realizzare il sogno di un popolo vennero accolti come eroi, perché erano stati il battito del cuore di un’intera nazione.

Quattro anni più tardi, cioè nel 2022, dopo che i componenti delle nazionali di calcio, beach soccer, pallanuoto, basket, ecc. si erano rifiutati di cantare l’inno della Repubblica islamica nelle più recenti competizioni internazionali, i leader del regime hanno temuto la ripetizione di questo gesto anche nella competizione con il maggior eco mediatico, la Coppa del Mondo FIFA.

Il Mondiale di quest’anno è stato assegnato al Qatar con i dollari del petrolio, e ora la Coppa del Mondo più strana e politica della storia, in uno dei paesi più piccoli e ricchi del mondo – peraltro nella stagione più atipica per un Mondiale – ospita la squadra nazionale di calcio iraniana. La squadra che rivede gli stessi giocatori del 2018 e lo stesso allenatore, il portoghese Carlos Queiroz. Una squadra che nel frattempo potrebbe essere diventata un po’ più forte, ma che non è più nel cuore degli 80 milioni di iraniani come quattro anni fa.

Perché questi quattro anni sono stati quattro anni di sofferenza per il popolo iraniano, quattro anni pieni di arresti, uccisioni (in soli tre giorni il regime ha ucciso più di 1500 persone nel reprimere le proteste popolari per l’aumento del prezzo della benzina), di stragi come quella dell’abbattimento del volo civile della Ukraine Airlines da parte dell’esercito per un supposto «errore umano», senza contare la gestione catastrofica della pandemia di Covid-19 con l’utilizzo di vaccini la cui validità è assai dubbia.

Ma con l’uccisione di Mahsa Amini – massacrata di botte presso una stazione di polizia di Teheran per aver indossato in modo non corretto il velo – il tempo di vivere forzatamente nel “paradiso” degli ayatollah, fatto di promesse vuote e dell’idea di raggiungimento del paradiso attraverso la sofferenza, è finito. Ora i cittadini iraniani muoiono per le strade. Muoiono «per le donne, per la vita, per la libertà», «per gli studenti in prigione», «per il sentimento di pace», «per la ragazza che avrebbe voluto essere un ragazzo», come canta la canzone simbolo della rivolta – quella «Shervin Hajipour» di cui dicevamo prima. E vengono uccisi perché tirano fuori la loro voce, soffocata da 43 anni di regime.

L’Iran era un paese dove il calcio batteva sotto la pelle e nelle vene dei suoi vicoli e ora non batte più. L’ultima cosa a cui la gente pensa è il calcio, perché non ha più una vita normale. Una situazione che le stelle della nazionale sembrano non vedere, mostrando invece indifferenza. Ripetono parole che non scontentano il regime, incontrano il Presidente iraniano, inchinandosi a lui e chiedendogli di pregare per la loro vittoria, mentre potrebbero cogliere l’occasione per chiedere di fermare l’uccisione dei cittadini iraniani.

I calciatori davanti alla telecamera della FIFA si comportano come se non ci fossero le notizie che vengono dall’Iran, come se nessun bambino fosse stato ucciso dal governo, e scattano bellissime foto con un grande sorriso. Questo è quello che vedono e percepiscono i cittadini iraniani. Una squadra che ha preso le distanze dagli 80 milioni di iraniani, i quali sono ben lontani da sostenerli. Nessuno sapeva a che ora fosse la partita Iran-Inghilterra perché gli orologi erano impostati sul tempo della libertà dell’Iran. Foto dei giocatori vengono date alle fiamme nelle città e ricevono critiche sia dagli atleti più famosi che dai semplici cittadini. Per questo la squadra non viene più chiamata la squadra Nazionale, ma «squadra della Repubblica Islamica».

Il popolo iraniano li chiama «infami» per la loro indifferenza alla situazione terribile dell’Iran di questi giorni. Sebbene i calciatori indossino braccialetti neri in segno di lutto e non cantino l’inno nazionale, la gente ritiene che questi atteggiamenti siano più di facciata e non aiutino la causa del popolo iraniano. E dalla nazionale ci si aspettava di più, unendosi alle proteste per le strade sessanta giorni fa e rifiutandosi di andare a giocare la Coppa del Mondo. Non cantare l’inno nazionale nella partita Iran-Inghilterra è stato come portare una medicina al capezzale di un uomo già morto per le ferite riportate negli scontri con la polizia. Non serve a nulla. La speranza è quella di avere un giorno un calcio più sano in un paese libero. Mentre le proteste non si fermano: «Donna vita liberta!».

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