Il 21 luglio, Joe Biden ha ritirato la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti d’America. La mossa del Presidente uscente rappresenta un evento più unico che raro per almeno due motivi. Il primo è che, nella storia degli Stati Uniti, nessun candidato alla massima carica nazionale si è mai ritirato dopo aver ottenuto la nomination ufficiale del suo partito. In secondo luogo, con il passo indietro di Biden viene meno una costante delle elezioni americane, quella per cui il Presidente uscente è il candidato “naturale” del suo partito.
Gli strappi a questa regola non scritta sono stati pochissimi: il caso più noto è quello di Lyndon B. Johnson, che ha rifiutato la nomination nel 1968 con un durissimo discorso televisivo in cui diceva che «non intendo ricandidarmi per un altro mandato e non accetterò alcuna richiesta in tal senso da parte del mio Partito». Ma ci si trovava in piena guerra del Vietnam, e il consenso dell’ex Vicepresidente di Kennedy era ai minimi storici. Allo stesso modo, Harry S. Truman, nel 1952, non si ricandidò per un secondo mandato: anche in questo caso, il problema era il consenso popolare, che aveva retto per tutta la Seconda guerra mondiale ma che, con l’ingresso del mondo nella guerra fredda, aveva iniziato a vacillare. E oggi?
Da Joe Biden a Kamala Harris
Oggi le cose vanno molto diversamente. In primo luogo, a differenza del 1952 e del 1968, gli Stati Uniti non sono direttamente coinvolti in alcuna guerra di vasta scala. «Il motivo principale che ha spinto Joe Biden ad abbandonare la campagna presidenziale è la sua età avanzata: ha 81 anni, è il Presidente più anziano nella storia degli Stati Uniti» spiega Oliviero Bergamini, responsabile esteri del TG1 ed ex corrispondente RAI dagli USA. In effetti, l’attuale inquilino della Casa Bianca ha iniziato il suo primo mandato a 78 anni. Se fosse stato eletto una seconda volta, si sarebbe reinsediato alla Casa Bianca a 81 e ne sarebbe uscito a 85. Per fare un confronto, Donald Trump – che certo non è un giovanotto – ha terminato il suo primo (e, per ora, unico) mandato a 74 anni, e già era il Presidente più anziano della storia, superando di gran lunga l’“anziano” Ronald Reagan, eletto a 69 anni e che ha concluso la sua presidenza a 77.
Ma i motivi dell’abbandono di Biden sono anche altri: «A influire c’è stato il disastroso dibattito televisivo del 27 giugno, che ha mostrato a tutti gli americani che Biden iniziava ad avere qualche problema di salute, sia fisica che mentale, e che non poteva restare a lungo il candidato di punta del suo partito. Non che non abbia tentato con le unghie e con i denti di mantenere la presa sulla nomination, sia ben chiaro. Alla fine, però, il Partito ha avuto la meglio: la pressione congiunta del blocco dei fondi dei finanziatori e dei politici stessi, che temevano di non essere rieletti a causa di un candidato Presidente debole, ha reso necessario trovare un nuovo nome», continua Bergamini.
Quel nome è Kamala Harris, la Vicepresidente uscente e, dopo che il suo superiore ha dato forfait, la figura più “naturale” per la carica presidenziale, almeno per quanto riguarda i Democratici. Non è dunque un caso che la Harris abbia ottenuto un consenso pressoché unanime nel corso della Democratic National Convention (DNC) del 19-22 agosto, durante la quale ha raccolto la nomination presidenziale del Partito Democratico e l’endorsement di tutto l’establishment della Sinistra, a partire da Barack e Michelle Obama e passando per Bill Clinton, Bernie Sanders, Alexandria Ocasio-Cortez (e gli altri rappresentanti “radicali” del partito), nonché per lo stesso Joe Biden. Quasi tutti i giornali americani hanno riportato che la DNC è stata un grandissimo successo per Kamala Harris, che ora molti media definiscono la «Presidente della Gioia», in netta opposizione ai toni “arrabbiati” della campagna elettorale di Donald Trump.
Chi è Kamala Harris?
Il successo personale di Kamala Harris alla DNC era annunciato. Non solo la neo-candidata ha permesso al suo partito di mettersi alle spalle l’ombra di Joe Biden – e i pessimi sondaggi che davano il Presidente uscente per sconfitto – ma è anche la figura ideale per un Partito Democratico sempre più “liberal” in politica estera ed economica, attento alle questioni migratorie e alla sicurezza delle grandi metropoli americane.
Il sito web della Casa Bianca contiene una dettagliata biografia della “numero due” di Joe Biden: la sua carriera è iniziata come procuratrice distrettuale della Contea di Alameda, in California, ed è continuata nel sistema giuridico americano come procuratrice distrettuale di San Francisco (una delle città più “difficili” degli Stati Uniti, in termini di lotta alla criminalità) e poi come procuratrice generale dell’intero Stato della California.
Nel 2016 è diventata senatrice con una vittoria clamorosa: Harris ha ottenuto il 62% dei voti dei californiani, in un’elezione che vedeva due candidati democratici sfidarsi tra loro per un seggio-fortezza della sinistra. Il Partito Repubblicano, per via del particolare sistema di voto del Golden Bear State, non è riuscito nemmeno a esprimere un candidato sulla scheda elettorale. Infine, nel 2020 Harris è stata scelta da Joe Biden come sua Vicepresidente, e il resto è storia. Completano la sua biografia due dati che la candidata sta sfruttando molto nella sua campagna elettorale. Il primo è la sua discendenza afro-asioamericana: la madre è indiana, il padre giamaicano. Il secondo sono le origini tutto sommato umili di Kamala Harris, che ha dovuto lavorare per McDonald’s per pagarsi gli studi: il Washington Post sottolinea che ciò potrebbe renderla una sorta di “candidata del popolo”, dal momento che il 12,5% degli americani ha, nel corso della sua vita, lavorato per la catena di fast food più famosa al mondo.
Bergamini spiega che il cambio di nomination da Biden a Harris è un passo avanti per il Partito Democratico: «Sicuramente si è trattato di una mossa positiva. La situazione di Biden dopo il dibattito del 27 giugno era quasi un’agonia: i sondaggi lo vedevano in calo, i finanziamenti venivano ritirati o congelati e il sostegno politico diminuiva di giorno in giorno. Così sarebbe stato difficile vincere le elezioni. Anche all’interno del partito stesso, le voci contrastanti si moltiplicavano. Quindi, il cambio del nome che apparirà sulla scheda ha decisamente senso, specie sul breve periodo. C’è da capire invece cosa succederà sul lungo periodo: adesso si sta verificando una sorta di luna di miele dei Democratici con Kamala Harris, ma molto dipende dall’effetto “pericolo scampato”, perché è stata lei a evitare alla sinistra di presentarsi al voto con un candidato debole, sia fisicamente che politicamente. Bisogna capire se, una volta superata questa prima fase, Harris sarà in grado di mantenere l’impegno che ha preso. Ciò che è certo è che prima c’era una certa angoscia tra le fila democratiche che ora non c’è più: a dimostrarlo sono i finanziamenti, che stanno fluendo copiosi nelle casse del partito».
Cosa cambia tra Joe Biden e Kamala Harris?
Viste le sue origini, la sua età e il suo cursus honorum, Kamala Harris ha idee e obiettivi diversi da Joe Biden sia in politica interna che per quanto riguarda gli esteri. «In campo interno, le differenze tra la nuova candidata e il suo predecessore non sono enormi – riporta Bergamini – D’altro canto, Harris è stata la Vicepresidente di Biden, perciò sarebbe assai strano che si schierasse contro le politiche che lei stessa ha sostenuto come parte dell’amministrazione uscente. Per questo, su temi come lo stralcio dei debiti studenteschi e l’assistenza sanitaria universale le posizioni della Casa Bianca dovrebbero restare grossomodo le stesse, se la candidata democratica dovesse essere eletta. Tuttavia, è pur vero che finora Harris si è dimostrata più progressista del suo predecessore. La differenza rispetto a Biden è dunque generalizzata, ma sottile. Si tratta di una differenza di accento, non di sostanza: la nuova candidata pone più enfasi su temi che Joe Biden non ha cavalcato nella sua campagna elettorale, ma sui quali la sua amministrazione si è comunque impegnata. Un tema interno su cui ci sono differenze piuttosto evidenti è quello del cambiamento climatico, dal momento che il sostegno di Harris al Green New Deal è più profondo rispetto a quello accordato da Biden».
In realtà, il 16 agosto la candidata ha rilasciato la sua piattaforma economica, che esaspera le politiche già implementate da Joe Biden in una maniera che una testata tradizionalmente “amica” dei Democratici, il Washington Post, ha definito “populiste”. Tra queste troviamo l’eliminazione dei debiti medico-sanitari per milioni di americani, un calmiere (mai visto prima) sul prezzo dei generi alimentari e diverse misure per le giovani famiglie.
Le discontinuità maggiori si verificheranno però in politica estera, soprattutto in Medio Oriente. Il responsabile esteri del TG1, infatti, dichiara che «finora, Kamala Harris si è dimostrata più filo-palestinese di Joe Biden. O meglio, ha dato prova di essere più sensibile al dramma che stanno vivendo i civili palestinesi nell’ambito del conflitto tra Israele e Hamas. Anche qui, però, si tratta soprattutto di una differenza di accento, che si ritrova perlopiù nella forza delle dichiarazioni pubbliche: quando Harris dice che la guerra sta “causando troppe vittime civili”, non si tratta di qualcosa che Biden non pensa o che non direbbe, ma di parole che non ha mai proferito finora, almeno non in questi termini. Harris è molto attenta alla causa palestinese: per esempio, è convinzione diffusa che non abbia scelto come suo Vicepresidente l’attuale Governatore della Pennsylvania Josh Shapiro perché è ebreo, tra le altre cose. Shapiro le avrebbe sicuramente fatto vincere il suo Stato, ma avrebbe fatto perdere al Partito Democratico il consenso di un’ampia frangia della sua base elettorale. Insomma, si tratta di una linea meno rigidamente filo-israeliana, come invece è quella di Biden».
Linea che è stata confermata anche alla Convention Nazionale del Partito Democratico: dopo essere salita sul palco della kermesse, infatti, Harris ha ribadito le sue posizioni filo-palestinesi dichiarando che «ciò che è successo a Gaza negli ultimi dieci mesi è devastante. Sono state perse tante vite innocenti, tante persone disperate e affamate sono fuggite per cercare un posto sicuro, e lo hanno dovuto fare più e più volte. La scala delle sofferenze vissute dai palestinesi mi spezza il cuore. Io e il Presidente Biden stiamo lavorando per porre fine a questa guerra mantenendo la sicurezza di Israele, favorendo il rilascio degli ostaggi, portando alla fine delle sofferenze a Gaza e permettendo alla popolazione palestinese di avere diritto alla dignità, alla sicurezza, alla libertà e all’autodeterminazione».
Al contempo, però, la candidata ha anche affermato di avere a cuore la sicurezza di Israele: «Mi batterò sempre per il diritto di esistere di Israele, che deve potersi difendere in autonomia. E mi assicurerò sempre che Israele possa difendersi da solo, perché i suoi cittadini non si trovano mai più faccia a faccia con l’orrore perpetrato da un’organizzazione terroristica come quella di Hamas e dei suoi attacchi del 7 ottobre». Al di là delle parole, però, contano i fatti, e sul palco della DNC i candidati pro-Palestina sono stati pochi: anche quelli più schierati, come Alexandria Ocasio-Cortez, hanno evitato di toccare il tema, mentre gli organizzatori dell’evento hanno respinto le richieste dei gruppi di protesta che domandavano qualche minuto riservato a uno speaker palestinese durante la manifestazione. Per tutta risposta, questi gruppi hanno dato inizio a un piccolo sit-in andato avanti fino alla fine della convention, senza però ottenere alcun risultato di peso.
La grande incognita, invece, è quella dell’Ucraina. Finora, infatti, i Democratici non hanno trattato apertamente il tema in campagna elettorale: lo stesso Joe Biden non ha toccato la questione ucraina nei suoi numerosi comizi. Donald Trump ha invece promesso di “far finire la guerra” dopo aver parlato con il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky – una dichiarazione che però desta preoccupazioni negli alleati NATO degli Stati Uniti, considerando il controverso rapporto tra Donald Trump e Vladimir Putin. La Casa Bianca non parla del conflitto in Est Europa per via di una scelta comunicativa ben precisa: la guerra non viene considerata un fallimento da Washington, ma il Presidente uscente (e la sua “sostituta”) ha deciso di capitalizzare sugli ottimi risultati conseguiti in politica economica, anziché focalizzarsi su quella estera.
«Storicamente, i casi in cui un conflitto ha monopolizzato la corsa alla presidenza sono stati giusto un paio, ovvero la guerra in Vietnam e quella in Iraq: si trattava di guerre in cui gli Stati Uniti erano direttamente coinvolti e la posta in gioco era alta, soprattutto in termini di vite umane. Biden ha sempre garantito un sostegno incondizionato all’Ucraina e sembra che Harris non si discosterà di un millimetro da questa linea. Trump, sotto questo punto di vista, rappresenta un’alternativa opposta, più isolazionista o comunque favorevole al disimpegno americano su tutti i fronti esteri. Harris non ha ancora avuto modo di confrontarsi personalmente con Trump: se ci sarà un dibattito pubblico tra i due, sicuramente parlerà molto anche dell’Ucraina» conclude Bergamini.