Rientrato in casa, Lorenzo si mise a suo agio e poi andò al PC per guardare la posta elettronica. Trovò una decina di e-mail ma rimase colpito da quella che stava in testa a tutte perché arrivava da Riccardo. Rimase per qualche secondo immobile di fronte alla schermata: si trattava di una sorpresa, considerando che suo figlio era molto parsimonioso in fatto di messaggi al papà – normale prassi adolescenziale – e quei pochi che riceveva viaggiavano solo su WhatsApp oppure su Instagram.
Nella sua e-mail, Riccardo gli chiedeva informazioni sul posto al quale Lorenzo aveva accennato quando parlò della casa di Riposo.
Il manicomio di Bergamo.
Lorenzo rispose all’email chiedendo che cosa volesse sapere di preciso ma soprattutto perché.
Inaspettatamente Riccardo rispose dopo appena un paio di minuti e il padre storse le labbra: era mezzanotte e mezza e dunque suo figlio era ancora in piedi, per di più attaccato al computer. E il giorno dopo c’era la scuola. Cosa ci faceva ancora in piedi? Ma la risposta più ovvia era la celebre espressione latineggiante: talis pater, talis filius.
Riccardo svelò il motivo della sua curiosità, chiedendo se dentro l’ex manicomio si organizzavano visite e Lorenzo replicò che la struttura ospitava l’Asl e che comunque di sicuro nessuno faceva del turismo in un manicomio, neppure ex.
Non sei bene informato, papà.
Riccardo spiegò che esistevano invece i Tour della Follia: a Volterra, a Maggiano e a Siena, per parlare solo della Toscana. Oppure a Rovigo. E chissà quanti altri. Tutti, naturalmente, consistevano nella visita di una struttura manicomiale abbandonata.
Un po’ come entrare in una casa disabitata.
Lorenzo era sbigottito. Non ne sapeva nulla e si prese del tempo prima di scrivere la sua opinione.
Ammise poi che si trattava di una novità, per lui, e dichiarò la sua contrarietà: i manicomi erano stati luoghi tristi, spazi occupati da dolore e violenza, spesso anche istituzioni utilizzate dalla politica per far sparire gli oppositori e le persone scomode per la società.
Adesso era la volta di Riccardo ad essere stupito e domandò ragguagli.
Lorenzo raccontò che in Italia come all’estero – e ancora di più in dittature del passato come in Unione Sovietica – nei manicomi non venivano internate solo le persone affette da disturbi mentali. I cosiddetti pazzi. Ma talvolta, e forse più di talvolta, ci finivano anche individui considerati minacce o anche un semplice fastidio – perfino un imbarazzo – per lo status quo: senza tetto, sbandati, disadattati, minorati di ogni tipo, paralitici, tisici, sifilitici, degenerati e, come detto, chi dava fastidio politicamente. In alcune parti del mondo, nel passato, nel manicomio ci mettevano anche gli omosessuali.
Le condizioni di vita di un manicomio erano molto peggiori di quelle di un carcere, perché oltre alla detenzione in una struttura chiusa si era sottoposti anche a pratiche “mediche” come l’isolamento, il contenimento con camicie di forza o roba simile, e l’elettroshock. I ricoverati vagavano in questi luoghi abbandonati a se stessi, tra urla e raptus violenti, indossando abiti informi e spesso senza calzature.
Lorenzo rimarcò che non vedeva nulla di divertente o istruttivo nel fare il turista in quei luoghi e Riccardo tacque. Aggiunse che per fortuna li avevano tutti chiusi.
Riccardo era sempre più curioso e volle sapere tutto al riguardo; suo padre raccontò della riforma fortemente voluta dallo psichiatra Franco Basaglia che ispirò l’omonima “legge Basaglia”, promulgata nel 1978 e che mise i sigilli a quelle vecchie e anacronistiche strutture, sostituendole con gli ospedali psichiatrici pubblici. L’Italia fu il primo paese al mondo ad abolire i manicomi e Lorenzo sottolineò che fu una scelta coraggiosa e molto civile.
Quella legge intendeva anche modernizzare l’assistenza psichiatrica, instaurando rapporti umani tra il personale e la società, stabilendo il riconoscimento dei diritti e il rispetto della qualità di vita dei pazienti, che andavano seguiti e curati anche dalle strutture territoriali.
I vecchi manicomi erano disciplinati da una legge del 1904 che rendeva molto facile l’ammissione dei malati di mente nei manicomi. Anche se per il ricovero erano necessari sia il certificato medico che l’atto di notorietà, alla fine si procedeva sempre con la procedura urgente, cioè la presentazione del solo certificato medico. Il direttore aveva i cosiddetti pieni poteri all’interno del manicomio, soprattutto in fatto di dimissioni dei malati e perfino riguardo la facoltà di comunicare con le persone esterne (ad esempio parenti o amici). Era tutto a sua discrezione.
La Legge Basaglia spazzò via tutto ciò.
Purtroppo la riforma, come spesso succede in Italia, non fu mai applicata interamente e questo spiegava che, se era vero che grazie al cielo i manicomi non c’erano più, era anche vero che i malati venivano affidati prevalentemente alle famiglie. Non solo: mancavano medici, psichiatri, psicologi, infermieri e personale addetto alla riabilitazione, ma anche le strutture. Così, la parte dove non arrivava lo Stato era lasciata sulle spalle delle famiglie dei pazienti, che ereditavano tanti problemi per loro – quasi sempre – irrisolvibili. E, talvolta, questo disagio e questa confusione erano testimoniati dalla cronaca. In questo caso nera.
Credo di aver capito, scrisse Ricky, chiedendo poi di sapere comunque qualcosa di più sul manicomio di Bergamo.
Lorenzo lo accontentò passando alla sua descrizione.
Il primo manicomio – si chiamava davvero così – nacque nel 1832 e fu collocato nel monastero allora disabitato di Astino. Proprio dove adesso, d’estate, si visita quel bellissimo edificio circondato dal verde e magari si prende qualcosa di fresco nel bar interno. Ma allora non aveva niente di piacevole.
Nel 1884 tentarono di cambiare un po’ le cose, individuando un terreno più grande e parzialmente coltivabile, vicino a una condotta d’acqua e situato in un’area piacevole molto vicina alla città.
Proprio nella parte finale di via Borgo Palazzo, ossia ai confini della città.
Bergamo, infatti, finiva appena ci si lasciava alle spalle piazza Sant’Anna e poi c’era solo campagna punteggiata da qualche raro edificio; un grande fossato pieno d’acqua costeggiava la strada lungo tutta la via Borgo Palazzo ed arrivava al confine di Seriate: l’acqua serviva per irrigare i campi e la strada era la vecchia Statale che, con il fondo fatto di grandi e sconnessi lastroni di cemento, martoriava la guida delle rare automobili che vi transitavano.
Ovviamente non c’era (per fortuna) il mastodontico cavalcavia che ora purtroppo contraddistingue il panorama di questa parte di via Borgo Palazzo; poco più in là, invece, cominciavano due grandissime oasi verdi che segnavano la vera fine della città.
L’incarico di progettare il nuovo manicomio venne assegnato all’Ingegner Elia Fornoni – proprio quello della Casa di Riposo, la Clementina (ne abbiamo parlato qui) – che realizzò un insieme di edifici di capienza, funzionalità e struttura idonei per ospitare un maggiore numero di malati rispetto al manicomio di Astino; il suo progetto mirava anche a un distanziare sensibilmente i padiglioni per un maggior soleggiamento dei locali oltre che per il previsto aumento di volumetrie. La distanza tra i padiglioni, inoltre, avrebbe consentito la formazione di vaste aree piantumate o coltivate per ortaggi.
Lasciata Bergamo alle spalle, sulla sinistra – dove ora appunto c’è l’ASL – si trovava dunque il grande complesso del vecchio Manicomio, circondato da una cancellata di almeno sette-ottocento metri a larghe maglie che lasciava intravedere quanto c’era all’interno.
Confinava con le case popolari di viale Venezia, andava fino a via Daste e Spalenga e poi su per un altro chilometro arrivando fin quasi dove ora c’era il Teatro Creberg e il deposito degli autobus.
Un’area immensa con all’interno molti padiglioni, alcuni tuttora esistenti – seppure destinati ad altro – allora adibiti alle varie patologie della mente e intorno solo moltissimo verde e alberi secolari.
Fino all’avvento della riforma Basaglia e sicuramente fino agli anni Cinquanta e Sessanta, non era necessario soffrire di una vera patologia mentale per essere ricoverati nel manicomio: bastava una forte depressione, una difficoltà di inserimento nel tessuto sociale, apatia o indolenza cronica, una meningite non sanata, insomma tutto ciò che deviava dai canoni della tranquilla “normalità” borghese. E l’autismo ovviamente non era stato ancora valutato con i moderni studi.
Nel linguaggio quotidiano sono rimasti dei modi di dire legati al manicomio per molto tempo anche dopo la sua chiusura: era percepito talmente lontano dalla città che quando si voleva dare del matto a qualcuno, gli si augurava di andare al manicome de Seriat. E poi, siccome il giovedì era il giorno in cui davano il permesso ai ricoverati di passare qualche ora fuori, quando qualcuno che si conosceva dava fuori di matto – modo di dire azzeccato – gli si domandava (magari in bergamasco): ma è già giovedì?
Comunque, in quel grandissimo rifugio verde c’era chi si ingegnava a passare il tempo curando le numerose piante e soprattutto coltivando gli orti che facevano bella mostra fra i rari passanti di via Borgo Palazzo. Enormi cavolfiori, piselli grandi come fagioli e fagioli grandi come melanzane, tutti accuditi con certosina e amorosa pazienza dai malati – i matti, come li chiamavano tutti – che impiegavano così il tanto tempo libero occupandosi della natura. C’erano anche campi di patate segnalati da immense foglie verde scuro che confinavano con viale Venezia e tantissime insalate. Il tutto sempre bagnato dalle acque del fosso che scorreva limpido ai margini dei campi.
Lorenzo scrisse di aver sentito dire che con l’arrivo degli anni Settanta – un decennio noto per essere molto politicizzato e sindacalizzato – ci si interrogò riguardo lo sfruttamento della mano d’opera gratuita presso il Manicomio. Forse non era vero, ma di sicuro le coltivazioni furono abbandonate proprio in quegli anni, forse solo per incuria, forse per diverse regolamentazioni interne, o appunto forse per non avere noie sindacali. Dove verdeggiavano l’area coltivata, furono stesi diversi camion di ghiaia facendo diventare tutto un grande parcheggio e i malati finirono a vagabondare tutto il giorno per i cortili o ad affacciarsi al cancello per chiedere una sigaretta ai rari passanti.
Quando la Legge Basaglia spalancò per sempre i cancelli del vecchio manicomio – anche il nome sparì, cambiandolo in Ospedale Neuropsichiatrico Provinciale – iniziarono i disagi di tante famiglie che improvvisamente si trovarono in casa un familiare con una situazione sociale problematica e le assistenze domiciliari dedicate al problema ancora solo sulla carta. Alcuni ex-ricoverati, ripudiati dalle famiglie o addirittura senza nessuno al mondo, si ritrovarono all’Albergo Popolare Bonomelli – quando andava bene – altri, meno fortunati, sparirono ai margini della società, tornando visibili solo quando la cronaca accendeva su di loro le luci di una tragica – e breve – notorietà.
Riccardo chiese cosa ne fu del manicomio.
Il terreno fu smembrato, rispose il padre, e ci costruirono sopra parecchi palazzi; dagli anni Novanta il complesso ospita un reparto di Neuropsichiatria infantile, uno di Medicina sportiva, un Hospice (residenza per malati terminali) e, dal 1998, anche l’ASL (Centro socio educativo, Centri residenziali per handicappati, Servizio per tossicodipendenze e Consultorio familiare).
Riccardo scrisse che il racconto del padre gli aveva fatto passare la voglia di visitare un ex-manicomio e lo ringraziò. Sembrava sincero.
E ora vai a letto, tiratardi, scrisse Lorenzo.