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Il golpe in Bolivia? «Una messinscena» secondo la comunità migrante bergamasca

Articolo. Quali sono le impressioni dei cittadini boliviani, dopo il colpo di Stato dello scorso 26 giugno? Abbiamo provato a capirlo incontrando alcune donne migranti di origine boliviana che si incontrano ogni domenica al Centro “San Lazzaro” di Bergamo

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Folle che mostrano solidarietà con il governo boliviano di fronte al Palazzo Presidenziale ((Miles Astray Shutterstock.com)

Chi è l’artefice del fallimentare colpo di Stato del 26 giugno in Bolivia? La stampa internazionale ha rapidamente identificato il capo nei golpisti nel generale Juan José Zúñiga Macías, ex-ufficiale delle forze armate che ha condotto personalmente un incerto manipolo di soldati all’assalto dei palazzi del potere di La Paz.

In effetti, l’identikit di Zúñiga è quella del “golpista perfetto”: membro dell’Ejército de Bolivia di lungo corso, secondo El Pais Zúñiga sarebbe stato messo in congedo appena 24 ore prima del suo attacco contro le istituzioni, con l’accusa di aver minacciato di morte l’ex-Presidente Evo Morales. Eppure, questa ricostruzione non convince: progettare un colpo di Stato in un solo giorno è impossibile anche per il militare con i collegamenti migliori al mondo. Tra gli organizzatori del colpo di Stato, infatti, figurerebbero una ventina di alte cariche dell’esercito: troppe per un’insurrezione spontanea. I soldati semplici che hanno imbracciato le armi erano qualche centinaio, cosa che indica come una preparazione sia effettivamente stata portata avanti almeno per qualche settimana prima del 26 giugno.

Attorno agli eventi della scorsa settimana si è creata nel mondo latinoamericano una vera e propria spy story fatta di accuse e controaccuse, di teorie del complotto e di misteri che, se non venissero risolti, rischierebbero di lasciare impuniti i veri golpisti.

Tre ore di crisi in Bolivia

Prima di attribuire le responsabilità del golpe, è bene fare il punto degli eventi del 26 giugno. Sforzo tutt’altro che titanico, dal momento che il colpo di Stato è durato poco più di tre ore, tra le 16 e le 20 locali (le 22 e le due di notte del 27 giugno in Italia). Un’ottima ricostruzione di Fanpage spiega che, nel pomeriggio del 26 giugno, un gruppo di militari ha preso d’assalto il Palazzo del Governo di La Paz, dove era in corso una riunione dell’esecutivo di Luis “Lucho” Alberto Arce Catacora, il Presidente del Paese. Arce e i suoi ministri sono stati tenuti in ostaggio per qualche ora, mentre le immagini delle violenze hanno rapidamente fatto il giro del web.

Nel momento in cui la notizia ha iniziato a diffondersi, Zúñiga è stato subito additato come il principale responsabile del colpo di Stato: non a caso, Arce ha immediatamente nominato dei nuovi vertici dell’esercito e ha inviato un messaggio alla nazione e agli abitanti di La Paz invitandoli a scendere in piazza per “salvare” la democrazia. Richiesta prontamente accolta dalla popolazione: un migliaio di civili si sono recati a Piazza Murillo per contrastare i golpisti. Al loro arrivo, però, hanno trovato i soldati già intenti a smobilitare e a ritornare nelle caserme – senza alcuna ripercussione, sembrerebbe – dopo che il nuovo Capo di Stato Maggiore Jose Wilson Sanchez Velasquez li ha invitati a desistere dalla rivoluzione.

Così, Zúñiga è rimasto privo di supporto “dal basso” e il suo colpo di Stato è imploso su sé stesso. L’ex-generale è stato rapidamente arrestato con l’accusa di tradimento e il Ministro della Difesa boliviano Edmundo Novillo si è affrettato a dichiarare che le autorità governative hanno rapidamente «ripreso il controllo dell’esercito», che «l’emergenza è rientrata» e che «un’azione come questa è il frutto di una mente squilibrata». Quasi tutte le alte cariche civili e militari boliviane si sono dunque prodigate per dipingere Zúñiga come un comandante rancoroso nei confronti del Governo per via del congedo ricevuto poche ore prima e che, pur di non lasciare le “stanze dei bottoni”, avrebbe deciso di prendere il potere tutto per sé, destituendo i civili con cui ha collaborato fino alla sua estromissione dalle forze armate. Una ricostruzione che ha retto per meno di una settimana: il 28 giugno, gli arresti connessi al golpe erano già saliti a 21, tra i quali figura l’ex-comandante dell’aeronautica militare Marcelo Javier Zegarra, che avrebbe personalmente condotto, insieme a Zúñiga, l’assalto a Piazza Murillo del 26 giugno. Anche l’omologo di Zúñiga per la Marina, Juan Arnez Salvador, è stato catturato, con l’accusa di essere una delle “menti” delle violenze che hanno portato a una decina di feriti, tutti civili.

Un colpo di Stato ordito dai militari ai danni della politica, sembrerebbe. Non si tratta di una novità per l’America Latina: solo in Bolivia – ricorda il Post i colpi di Stato post-indipendenza sono stati ben 190, e quello del 2024 sembra rientrare nella fattispecie più comune di tutti, quella che vede le forze armate tentare di prendere il potere destituendo un governo civile percepito come corrotto e incapace. Il fallimento del golpe sarebbe stato determinato dal fatto che tale immagine era radicata solo nella mente di Zúñiga e di una manciata di altri militari, ma non è stata condivisa dalla popolazione e (pare) dalla maggior parte dell’esercito.

Una ricostruzione quasi “da manuale” degli eventi, che da sola potrebbe consentire di relegarli ai libri di storia, quasi fingendo che nulla sia avvenuto. Eppure, sempre il 28 giugno – giorno della maxi-tornata di arresti nelle forze armate – il Presidente Arce ha dichiarato che «dietro al tentativo di colpo di Stato in Bolivia non ci sono i militari: i veri mandanti sono civili. I soldati sono il braccio che esegue, ma c’è sempre qualcuno che fa delle promesse e che finanzia queste azioni». Ed ecco crollare il castello di carta: Zúñiga e Salvador vengono declassati a semplici burattini di un interesse più alto, civile (politico?) e non militare. Ma di che tipo di interesse si tratta?

«È tutta una montatura»

Qui entrano in gioco le sensibilità personali, anche perché una verità fattuale sui mandanti del golpe ancora non c’è. Per farmi un’idea di quali siano le impressioni dei cittadini del Paese latinoamericano, ho parlato con alcune donne migranti di origine boliviana che si incontrano ogni domenica per un pranzo sociale al Centro “San Lazzaro” di Bergamo e che preferiscono restare anonime. Non appena ho iniziato a chiedere loro del colpo di Stato, si sono messe a ridere. «È tutta una finta» mi ha detto una. «Si sono messi d’accordo, l’hanno fatto Zúñiga e Arce in combutta» ha aggiunto un’altra. Una terza ha concluso che «il colpo di Stato non doveva avere successo fin dall’inizio: è servito per distrarre l’opinione pubblica dai problemi seri, l’economia e il lavoro. L’anno prossimo si vota».

La visione che queste osservatrici – per loro stessa ammissione privilegiate, perché ormai lontane dalla Bolivia e dai suoi problemi – mi hanno trasmesso è quella che circola nei gruppi WhatsApp e nei canali social delle comunità migranti boliviane di tutta Italia e, probabilmente, del resto del mondo. Una delle intervistate, addirittura, mi ha mostrato una lunga chat con altri boliviani migranti in cui, tra un video e l’altro degli eventi di Piazza Murillo e dei telegiornali nazionali, sbucano dei meme che si prendono gioco dei golpisti quanto delle “vittime” del tentativo di presa del potere del 26 giugno. Un articolo di Repubblica dice che considerare il colpo di Stato come una messinscena è una “teoria del complotto”, ma molti boliviani sembrano essere sinceramente convinti che dietro agli eventi di fine giugno ci sia qualcosa di più, che viene taciuto dalle autorità governative.

Lo stesso Zúñiga, arrestato sul posto nel bel mezzo del golpe, ha scambiato qualche parola con i giornalisti accorsi a La Paz prima di finire in manette. Ha detto che Arce sarebbe il vero mandante del colpo di Stato: il Presidente, addirittura, avrebbe detto all’ex-generale, poche settimane prima di destituirlo, che «la situazione è molto complicata. È necessario fare qualcosa per risollevare la mia popolarità». Da qui l’idea di inscenare un golpe: gli attacchi alla democrazia si sono storicamente rivelati capaci di rinsaldare la fiducia popolare nelle istituzioni nazionali che riescono a scampare alla morsa dei militari, facendo leva sul fatto che l’unica alternativa possibile a un governo debole ma civile sia la barbarie della dittatura. Si tratta di un tema ricorrente nella storia del golpismo: qualcuno sicuramente ricorderà le accuse mosse al Presidente turco Erdogan dopo il fallimentare (e secondo molti del tutto fasullo) golpe del 2016, anch’esso rientrato in poche ore e che non ha fatto altro che cementare il potere del capo di Stato sul suo Paese.

Ma torniamo alla Bolivia: poco prima di entrare nel carcere di Chonchocoro – un istituto di massima sicurezza, da dove l’ex-generale non potrà certo mettersi in contatto con l’esterno – Zúñiga è stato avvicinato da dei giornalisti, ma si è limitato a dire loro parole criptiche: «la verità verrà a galla, prima o poi». Per ora, però, le fonti governative non si sono espresse sulle accuse rivolte al capo dello Stato: al più, il Ministro della Difesa e della Trasparenza Istituzionale Iván Lima ha invitato i cittadini a non credere alle «menzogne» dell’ex-generale.

Un Paese sull’orlo della crisi politica

Una domanda che ci si potrebbe porre, a questo punto, è se effettivamente la situazione politica in Bolivia sia critica come Arce ha detto a Zúñiga in quel discorso che sembra aver posto le basi per il colpo di Stato del 26 giugno. A un primo sguardo, si direbbe di no. Come spiegava una delle migranti che ho incontrato, le prossime elezioni si terranno solo nel 2025. Tuttavia, i giochi di potere all’interno del partito dominante, il Movimento per il Socialismo (MAS), sono iniziati diversi mesi fa e hanno fomentato delle tensioni su scala nazionale. Ciò dipende dal fatto che il MAS si è trasformato in una formazione politica con due anime diverse, che rispondono ciascuna a una figura di richiamo: c’è infatti un’ala più moderata, vicina all’attuale presidente Arce; e poi ce n’è una più radicale, che considera come proprio leader l’ex-Presidente Evo Morales.

Morales è stato un Presidente molto amato in Bolivia e ha governato il Paese senza sosta tra il 2006 e il 2019: Arce ha ricoperto delle cariche chiave nei Governi Morales, come quella di Ministro dell’Economia. Tuttavia, nel 2019 le pressioni dell’opinione pubblica, che ha accusato il MAS di brogli elettorali, hanno portato Morales a ritirarsi e a fuggire in esilio prima in Messico e poi in Argentina. La tornata elettorale è stata considerata nulla, portando all’insediamento di un governo di destra che ha condotto il Paese a nuove elezioni nel 2020, di nuovo vinte dal MAS. Dopo questi eventi, Evo Morales ha fatto ritorno nel suo Paese e ha assunto il ruolo di massimo dirigente del partito: il suo nome, però, non poteva più essere speso per una nomination presidenziale (non dopo le proteste dei civili e dei militari del 2019), perciò al suo posto fu scelto un collaboratore di lungo corso: Luis Arce, ovviamente.

La situazione ha iniziato a peggiorare quando, nel mese di settembre del 2023, Morales ha annunciato che si sarebbe ricandidato come Presidente alle elezioni del 2025. Tuttavia, il MAS aveva già un candidato “naturale” per la tornata elettorale del prossimo anno, ovvero il Presidente uscente Arce. Arce, per evitare tensioni e per non rischiare un’espulsione dal suo stesso partito, non ha ancora avanzato una candidatura ufficiale, ma è ovvio che ambisca a una conferma almeno per un secondo mandato. La stortura istituzionale della ricandidatura di Evo Morales rischia così di spezzare in due il Partito più grande della Bolivia, consegnando il Paese alle destre, invise a buona parte della popolazione nazionale e all’esercito. Ancora peggio, secondo la giurisprudenza boliviana Morales sarebbe incandidabile, perché per la Costituzione nessun cittadino può ricoprire la carica presidenziale per più di due mandati, consecutivi o meno che siano.

Ovviamente, sembra che a Morales tale limitazione importi poco, grazie anche al sostegno pressoché incondizionato che gli viene garantito dagli agricoltori di tutta la Bolivia: l’ex-premier si è formato come leader sindacale del mondo agricolo e, quando il Tribunale Costituzionale Plurinazionale (TCP) ha chiarito che non si potrà ricandidare, gli agricoltori stessi hanno bloccato le strade principali del Paese per diversi giorni, salvo poi smobilitare su pressione delle autorità militari. L’atteggiamento di Morales non sembra essere andato giù ad Arce e a buona parte del MAS, che attualmente è diviso in due fazioni, rispettivamente note come evistas (da “Evo”, il nome di Morales) e “arcistas (da “Arce”, l’attuale Presidente). Insomma, la Bolivia è sull’orlo della crisi politica, ma si tratta di una crisi peculiare: a fronteggiarsi non sono due partiti diversi, ma due frange all’interno della stessa, potentissima fazione.

Sanità, lavoro e giovani: i grandi problemi della Bolivia

Tornando alle dichiarazioni che mi sono state rilasciate dalla comunità boliviana di Bergamo, c’è un’altra spiegazione del golpe che circola tra le comunità diasporiche, secondo cui si tratterebbe di «una messinscena per far dimenticare ai boliviani i problemi reali del Paese in vista delle nuove elezioni». In effetti, molti dei migranti hanno affermato di essere partiti proprio per via delle pessime condizioni nazionali. Una delle storie che mi sono state raccontate è quella di una migrante di circa sessant’anni, che prima è stata in Italia per qualche anno per lavoro e che, una volta rientrata in Bolivia ha ricevuto una doppia diagnosi di tumore e diabete: «Avevo in programma di restare in Bolivia a vivere perché avevo accumulato un bel gruzzoletto dopo aver trascorso qualche anno qui in Italia – mi ha spiegato – ma quando ho scoperto le due malattie sono tornata qui. Il sistema sanitario boliviano non è gratuito: devi pagare un’assicurazione, che costa molto. Le prestazioni di base non sono garantite. Se stai male e non sei ricco, è meglio andare via».

Per questo stesso motivo, per esempio, molte comunità latinoamericane preferiscono spostarsi in Europa anziché nei più vicini Stati Uniti: «In America pagano bene e ci puoi arrivare facilmente, basta un biglietto aereo che si può comprare risparmiando per qualche mese. Ma una volta che sei lì e non hai i documenti in regola non puoi stipulare un’assicurazione sanitaria. Se stai male, non vieni curato. Alcuni giovani vanno lo stesso in Nordamerica, perché sanno di essere in buona salute e puntano a uno stipendio più alto. Chi invece ha qualche anno in più si reca in Europa».

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Strettamente collegata alla questione sanitaria è un’altra problematica diffusa e che spinge i boliviani a migrare: i debiti. «Molti dei migranti boliviani hanno dei debiti che non potrebbero mai estinguere rimanendo a casa. In alcuni casi si tratta di conti delle strutture mediche e ospedaliere, magari dei genitori o dei figli piccoli. In altri, invece, si tratta di mutui per la casa». Il progetto di vita, in questo caso, è quello di migrare per qualche anno, lavorare all’estero e inviare le rimesse a casa, sperando che i famigliari le gestiscano adeguatamente, per poi fare ritorno nel Paese di origine e mettere su un negozio, un’azienda di famiglia o una fattoria con quanto guadagnato in Europa.

E poi c’è la mancanza di posti di lavoro per i giovani e per le donne. «Sono arrivata in Italia più di vent’anni fa, ormai ho la cittadinanza» mi dice una migrante, che aggiunge: «Quando sono venuta qui l’ho fatto per questioni economiche. In Italia ho svolto diversi lavori, tutti con una paga molto superiore a quella che avrei ricevuto nel mio Paese. Con il tempo, tre dei miei figli sono venuti a vivere con me: anche loro erano alla ricerca di un impiego. Altri sono rimasti in Bolivia, ma non certo per ragioni economiche: avevano già fatto famiglia e comprato casa là, non se la sono sentita di partire».

Salute, disoccupazione, debiti e un’economia traballante: sono questi gli scheletri nell’armadio del governo di La Paz, dai quali la politica vorrebbe distogliere l’attenzione della popolazione in vista di un’elezione che si giocherà più sulle dinamiche interne del MAS che sulle reali richieste della popolazione.

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