Il diavolo, nelle fiabe, compare spesso come figura magica che promette doni infiniti in cambio dell’anima della persona che si trova di fronte. Da qui nasce spesso un gioco di inganni in cui a volte è il protagonista della fiaba a ingannare il diavolo, a volte il contrario. Nella cultura cristiana, rappresenta il male opposto al bene divino. In psicologia viene spesso usato come metafora di cose che succedono nelle dinamiche della psiche e dell’inconscio. In analisi bioenergetica, a volte, è simbolo di qualcosa, a volte un evento traumatico, altre una dinamica relazionale, che ci influenza separando la nostra energia vitale dalla nostra volontà, finché ci si rivolta contro arrivando di fatto a bloccarci o quantomeno rallentarci, ostacolarci nel nostro processo di individuazione, di crescita personale. Si trasforma in quelle che si definiscono «resistenze». Un modo in cui questo può manifestarsi a livello conscio è il senso di colpa, una sorta di “alieno” (o forse di diavolo) emotivo che spesso ci frena e ci controllo, se non addirittura ci imprigiona.
Non voglio certamente screditare l’assumersi le proprie responsabilità e incentivare l’agire senza pensare alle conseguenze delle nostre azioni sulla vita altrui. C’è una differenza fra responsabilità e senso di colpa: la responsabilità ha a che fare con qualcosa che abbiamo fatto. Può essere sbagliato, e possiamo provare a riparare, a porre rimedio, o quantomeno a dire che ci dispiace. Quando ci assumiamo la responsabilità di ciò che abbiamo fatto, generalmente, ci mettiamo nella possibilità di un movimento riparatorio. In una prospettiva più ampia, ne scrivevo in questo articolo. La colpa, invece, ci blocca, ci paralizza in uno stato di congelamento, quasi. Sentiamo il senso di colpa come una sensazione fredda nelle viscere.
Come nasce il senso di colpa? Nella prima infanzia, nella condizione di totale dipendenza dalle nostre figure di riferimento, che spesso sono i nostri genitori, non possiamo fare altrimenti che affidarci totalmente a loro. Quindi dobbiamo per forza ritenerli infallibili, perfetti, delle divinità, in pratica. Ma i genitori, come ben sappiamo (da adulti), sono esseri umani, e quindi fallibili, imperfetti (anzi, l’ideale, secondo Donald Winnicot, geniale psicanalista dell’infanzia, è il genitore «sufficientemente buono»), quindi può capitare di percepirli arrabbiati, nervosi, assenti e distanti apparentemente senza alcun motivo causato da noi. Il motivo può essere interno ai genitori, esterno alla famiglia, poco importa, ma non potendolo comprendere, e, essendo noi aggrappati per sopravvivere all’amore dei nostri genitori, non possiamo che immaginare di essere la causa di quel malessere.
Così nasce, spesso, il senso di colpa: per paura di perdere l’amore dei genitori ci dichiariamo inconsciamente colpevoli per qualcosa di indefinito. Se la responsabilità richiama qualcosa che abbiamo fatto, la colpa (termine che non a caso è usato soprattutto in gergo religioso e giuridico) punta il dito su cosa siamo, mira alla nostra identità, alla nostra essenza, che potremmo percepire invariabile, e quindi ci porta e sentire una sorta di dannazione, un marchio indelebile. Da qui potremmo sviluppare un perenne senso di inadeguatezza, che va di pari passo con l’idea di non meritare nulla: né amore, né il successo in vari campi. Con la conseguenza di ripiegare spesso a una vita al ribasso, non come scelta volontaria, ma come conseguenza di una pervasiva sottostima di sé.
Il linguaggio della colpa è un linguaggio svilente che, come dicevo, punta il dito e mira (e di conseguenza mina) l’essere. Non un codice relazionale in cui si mostrano e contestualizzano eventuali errori, spiegandone eventualmente conseguenze e possibili rimedi, ma un’educazione basata su accuse che suonano come un «Tu sei cattivo (o cattiva)». Quindi non meritevole di amore. Sei questo, sei quello, sei così: sei…sei…sei con un gioco di parole: ecco il numero del diavolo, il male per eccellenza nella cultura cristiana.
Continuiamo a giocare con le parole, ora con l’etimologia. Diavolo deriva da un termine che indica una frattura: anche in questo senso spezza qualcosa. Da un lato la nostra fiducia in noi, l’amore per noi stessi. E se siamo noi a non amarci, come possiamo percepire l’amore che altri possono provare nei nostri confronti? Impossibile! Non lo meritiamo! Dall’altro il nostro senso di coesione interiore, creando una scissione energetica per cui la nostra vitalità risulta impoverita di una parte che si scinde, si separa per fare da freno. Veniamo privati di un pezzo di vitalità per proteggerci dal riprovare la sensazione terribile di poter perdere l’amore.
Cattivo ha la stessa radice di cattività, contiene un’idea di prigionia. Quando veniamo ci sentiamo cattivi, siamo probabilmente prigionieri dei nostri diavoli, come lo è, dei sui di diavoli, chi manifesta cattiveria.
Come si supera il senso di colpa? Grazie a esperienze relazionali positive e riparative. In altre parole: è la vita che cura. Purtroppo non è così semplice. Bisogna prima autorizzarsi all’aprirsi alla vita, all’accettare la possibilità di essere felici, a scardinare la certezza di non meritare amore. Una brutta certezza, ma a volte ci si aggrappa anche a qualcosa di illusorio, se ci sembra l’unico appiglio rimasto sopra l’abisso, così come ci aggrappavamo all’amore dei nostri genitori.
Non abbiamo colpe per quello che ci è successo in passato, ma abbiamo la responsabilità di ciò che volgiamo far succedere nel nostro futuro, e di ciò che facciamo nel presente per muoverci in quella direzione. L’esperienza terapeutica racconta di come spesso capiti di ripetere le stesse terribili esperienze relazionali dolorose, e questo succede finché non superiamo e curiamo le nostre ferite relazionali. La relazione terapeutica fornisce un luogo sicuro dove poter sperimentare esperienze positive e riparative. Non ci sono formule o tecniche magiche: il senso di colpa si scioglie quando torniamo ad amarci, ed è un processo. Qualche volta ci sono eventi che lo segnalano, come segnavia: mi sono reso conto di aver superato il senso di colpa in un sogno. Spesso è un tonare a ricordare (etimologicamente: riportare al cuore) ciò che probabilmente abbiamo dimenticato: meritiamo amore.