L’uomo e la sua parabola. Lanús, 30 ottobre 1960. Tigre, 25 novembre 2020. Diego Armando Maradona. Praticamente il calcio. La sua grandezza con la palla ai piedi non giustifica del tutto la commozione planetaria di queste ore. Maradona non era solo calcio, era vita, una traiettoria verso il baratro. Dalla povertà alla gloria, e poi verso il disfacimento. L’anti-modello per eccellenza, uno che amavi al di là di tutto, controverso e magico con la palla ai piedi, il Che Guevara tatuato sul braccio, lui che era un Che Guevara della dissoluzione.
La droga, tanta droga, la mafia, le donne (e la violenza), i figli sparsi qua e là. L’arroganza che rimava con ignoranza. Lo sbandato di ogni bar di paese, ma un alieno con la palla ai piedi. Non sarebbero stati possibili, altrimenti, tanti documentari, fra cui uno folle sull’esperienza messicana da allenatore della Sinaloa Dorados (“Maradona in Messico”, su Netflix). E poi il film di Kusturica (“Maradona”, 2008, bellissimo). L’omaggio di Sorrentino per l’Oscar a “La grande bellezza” e quella scena stellare in “Youth” con un finto Maradona obeso che palleggia volteggiando una pallina da tennis. Una canzone di Manu Chao, “La vida tombòla”, che è forse l’omaggio più bello di tutti: “Si yo fuera Maradona / Saldría en mondovision / Para gritarle a la FIFA / Que ellos son el gran ladrón!”.
Il Pibe de Oro è stato cinema, musica, teatro (di lui Carmelo Bene disse che era meglio di tutta la produzione di Shakespeare, per poi ritrattare favorendogli Van Basten), tragedia. USA 1994, l’Argentina contro la Grecia, un 4 a 0 senza storia. Il terzo gol lo firma Diego Armando come una specie di (apparente) liberazione. L’urlo rabbioso davanti alla telecamera. E poi il volto tirato, teso, seguendo l’addetta all’antidoping verso l’esame, che ne decreterà la squalifica definitiva per utilizzo di efedrina. Tragedia, appunto. Non era furbo, era Maradona: cosa ti aspettavi Diego, che non ti avrebbero controllato?
Pasolini diceva che il calcio è l’ultima religione del nostro tempo. E a vedere lo sconcerto planetario con cui è stata accolta la notizia del decesso viene da credergli. Perché Maradona è stato il più forte di tutti, ma più che un calciatore era una rockstar con tutti i suoi eccessi. Glorificò Napoli, che in queste ore, sulle chat di WhatsApp, in casa, in strada fregandosene del divieto di assembramento, lo piange come si piangerebbe il proprio padre, un fratello. O meglio dio. Con quella mano scorretta che in un Argentina-Inghilterra del mondiale ’86 creò il modo di dire la mano de dios. Ma la mano era la sua, era lui la divinità aliena.
In queste ore Google pullula di ricerche legate a Maradona. Su Wikipedia c’è pure una voce dedicata a la mano de dios. Il 25 novembre diventerà per molto tempo ancora la data della sua morte, dopo due scudetti con il Napoli, un mondiale, le disintossicazioni dalla cocaina, il Barcellona dove subì un infortunio devastante al ginocchio per un’entrata di Goikoetxea, l’Arabia Saudita (nel 2011, dopo una decina di mesi di inattività lo ingaggiò per 4,5 milioni di dollari a stagione e un jet privato come benefit) e tutto il resto. Pallone d’oro nel 1979 del Mondiale Under 20. Pallone d’oro al Mondiale 1986. Pallone d’oro nel 1995 alla carriera. Tutto senza vincere il Pallone d’oro dei Platini, Ronaldo, Messi. Forse è anche questa una dimostrazione che Diego era di un altro pianeta.
Vorrei la sua vita raccontata da Dostoevsky, da Philip Roth, da Don De Lillo con quella capacità di flirtare con i movimenti della Storia che l’americano ha usato per narrare la vicenda umana, politica di Lee Harvey Oswald e dell’assassinio di JFK Kennedy in “Libra”. Non è vero che Diego Armando Maradona non gioca più. Gioca ancora nella nostra memoria, ci giocherà sempre sfidando l’impossibile e la gioia per lui distruttiva di giocare a calcio. La punizione imparabile nel Napoli contro la Juventus e Stefano Tacconi. Questo, insieme alla debacle americana è forse il ricordo più forte che ho di lui. Ognuno ha il suo. Le persone l’hanno distrutto e divinizzato. Ma Maradona vive.