La casa in cui vive è una vecchia bifamiliare di cui lui, dacché ho memoria di quel luogo, è l’unico inquilino. L’intonaco giallo della facciata è sbiadito e nei dintorni delle finestre si scrosta in squarci irregolari che lasciano scoperta la carne viva della muratura. Non fosse per due imposte leggermente aperte, come palpebre stanche in lotta contro la forza del sonno, si direbbe che tra quelle mura non vi siano che stanze vuote, fredde, animate solo dalle risonanze spettrali delle vite che un tempo le hanno riempite. Il cancello in ferro battuto apre a un vialetto di ghiaia che prosegue tagliando il giardino in due ali di erba bruciata dal gelo dicembrino. Dal cielo cade una luce opaca, abbacinante, un velo sotto cui tutto giace immobile, come impresso su una pellicola fotografica. Un albero di cachi carico di frutti occupa il lato orientale del cortile prospiciente la casa, il mistero di un intrico scheletrico di rami spogli che riesce a dare frutti così ricchi e carnosi seppur sembri non poter essere destinato ad altro che al fuoco di un camino.
In quel momento, il vecchio spunta da dietro l’angolo, il passo è legnoso ma deciso. I capelli lunghi e crespi dello stesso bianco argenteo del cielo dondolano in ciocche contro le guance cave e gli zigomi ossuti. Dà l’impressione di essere più vecchio di quanto non mi sia mai apparso da lontano – mi capitava di vederlo rimbalzare da un lato all’altro della strada per raccogliere cicche spente e recuperarne il tabacco con cui fabbricarsi qualche sigaretta. Senza fermarsi mi trafigge con lo sguardo. Nei suoi occhi si cade, seguendo una scintilla, in un gorgo profondissimo in cui vortica una solitudine antica, irrisolvibile. Di chi non riesca a trovare nemmeno il conforto amaro della nostalgia.
“Vieni dentro”, dice. “Qui fuori si gela”.
All’interno galleggia una penombra diffusa. Un piccolo albero di Natale illumina l’ingresso dall’alto di un tavolino di legno dagli spigoli sbucciati. L’uomo dai riccioli bianchi mi fa largo verso il soggiorno, attraversiamo il corridoio, il suo respiro corto si alterna ritmicamente allo strascichio del passo. Le lunghe pareti sono costellate di fotografie che coprono gran parte del Novecento – così mi pare osservando la grana degli scatti, i colori, i vestiari. Ritraggono persone sempre diverse, di ogni età, uomini, donne, bambini. Sono foto di famiglia che apparentemente nulla hanno a che fare con l’uomo che mi è vicino. Vite che hanno seguito orbite indipendenti, schegge lanciate dal caso in ogni direzione, senza criterio, e che ora condividono la sorte di ritrovarsi cristallizzate sul muro di questo corridoio ombroso, in una vecchia bifamiliare del secolo scorso, nell’agro di una frazione di un paese della provincia bergamasca, ricomposte così, come se lui fosse tutti loro, a tracciare la geografia di un passato inesistito, o che esiste solo nel presente.
“Tutte emerse dall’oblio” dice lui senza voltarsi, tiene lo sguardo fermo sugli scatti alle pareti. Cassonetti, discariche, cantine, depositi e mercati dell’usato sono alcuni dei fondali in cui dice di pescare. Lo immagino come uno di quei cercatori di perle filippini che scandagliano i fondali corallini restando per minuti in apnea, e che finiscono per forarsi i timpani a forza di spingersi in profondità, giorno dopo giorno. Con la stessa irrinunciabile necessità lui recupera quei frammenti abbandonati di esistenze, levatrici di ricordi senza più funzione, simulacri orfani destinati alla distruzione. Forse è la sua solitudine, il prezzo da pagare, il suo udito compromesso. O forse è il movente, e il prezzo nascosto è il rimpianto, di chissà quale forma. Un vuoto a cui non ha mai trovato altro da opporre se non i frammenti dispersi e ritrovati di vite che non sono la sua.
“Non si è mai così legati a degli sconosciuti come quando si guardano le loro foto di famiglia” aggiunge. “C’è qualcosa di potente che ti pervade, una sensazione di estranea intimità... Riconosci qualcosa di tuo che non lo è, e a quel punto il legame è indissolubile.”
Non so cosa rispondere. Mi sfiora l’idea di chiedere perché. Perché non ci sono immagini della sua vita, lì appese. Tre piccole fotografie in bianco e nero rubano la mia attenzione, quasi volessero persuadermi dal farlo. Devono essere state aggiunte alla collezione di recente, non hanno cornice, sono attaccate al muro con dei ritagli di nastro adesivo.
Un bambino il giorno di Natale, un pino addobbato, un tavolo carico di regali, gli sguardi un po’ spaesati che sembrano seguire il richiamo di un nome pronunciato con dolcezza.
“25 dicembre 1939” dice l’uomo dai riccioli bianchi. “La mano che l’ha datata si è preoccupata di aggiungere anche l’anno dell’era fascista in numeri romani”. Capovolge la foto e mi mostra con l’indice il XVII appuntato subito dopo la data. “Vengono da album con alcuni momenti dei suoi primi due anni. Si chiama Giorgio Aldo, è nato il 4 luglio 1938. Le fotografie si fermano all’estate di due anni dopo”.
Racconta che è una delle poche informazioni che ha ricavato dalle didascalie. Per il resto, interroga le immagini in attesa del minimo dettaglio rivelatore, qualcosa che parli di quegli sconosciuti, del bambino, della sua famiglia.
“Osserva bene dietro le fronde del pino. Si intravede un quadro con un cavallo che scalpita e che sbuffa dalle froge come una macchina a vapore. L’immagine si ripete, simula il movimento, come facevano i futuristi. Ho scoperto che il dipinto è del 1932, l’autore si chiama Alessandro Bruschetti. Si intitola Dinamismo di cavalli. In tutta la casa ci sono dipinti di quel tipo”.
Mi sforzo di riconoscere qualcosa ma la penombra della fotografia è troppo fitta. Per qualche minuto restiamo in silenzio. Si sente il ticchettio ipnotico di un pendolo, proviene da un altrove della casa. Il tempo scorre, eppure sembra sospeso. Comincio a sentire il bisogno di scoprire altro, cresce come un prurito contagioso. Con la coda dell’occhio mi pare di scorgere una specie di ghigno soddisfatto sul volto calcareo del vecchio.
“Seguimi in soggiorno”, dice. “Ho qualcuno da presentarti”.
Si direbbe che la sala è il luogo della casa in cui trascorre gran parte del suo tempo. Una coperta stropicciata giace su una poltrona di velluto verde palude, c’è un cuscino solcato dal sonno, un gatto lecca i residui di cibo da un piatto abbandonato a terra, sul pavimento lucido di graniglia veneziana, le mille tessere irregolari sembrano frantumi che galleggiano alla deriva. Alle pareti svettano grandi armadi aperti, sono pieni di vecchi libri, tomi enciclopedici, edizioni antiche dalle rilegature logore, migliaia di pagine che impolverano i polpastrelli e affaticano gli occhi. Uno scoiattolo impagliato guarda la stanza dalla sommità di uno scaffale, stringe una noce con le zampe, per sempre sua. Sui lembi spogli delle pareti non ci sono quadri, solo altre fotografie. L’uomo dai riccioli bianchi circumnaviga il grande tavolo di legno al centro del soggiorno, si muove senza fretta verso la finestra. Apre le imposte. La luce è cambiata, deposita all’interno una specie di coltre opaca del colore dell’ambra. Una quantità di fotografie affastellate sul tavolo emerge dalla penombra. “Ecco qui”, dice distendendo il braccio a mezz’aria. “Giorgio Aldo e la sua famiglia”.
Ci sono una lampada e una lente di ingrandimento, un quaderno con appunti sparsi, tre libri impilati uno sull’altro, un posacenere sporco. Il vecchio è in piedi di fronte al tavolo ma lo si può vedere seduto, nel cuore della notte, curvo sulle fotografie che cullano la sua insonnia fino all’alba, nella pozza di luce della lampada accesa, a scrutare ogni centimetro, a studiare volti, paesaggi, strade, vestiti, oggetti, scritte. Ora la sua mano fruga nel mucchio con la delicatezza del buon custode di ricordi, la sua voce racconta che la famiglia era benestante, borghese, fascista. Padre, madre, tre femmine e due maschi, Giorgio Aldo l’ultimo arrivato. Passavano le vacanze a Selvino durante i mesi più caldi, la bambinaia al seguito, il primi due compleanni del principino trascorsi sui prati della Val Seriana. Le visite di presunti parenti, le passeggiate sui campi fioriti inondati dal sole, la vertigine di un giro in altalena, Giorgio Aldo seduto sul cofano di una Fiat Balilla del 1934. E quel tale con il completo chiaro e il cappello, una cicatrice a V all’angolo sinistro della bocca e la svastica nazista appuntata sul risvolto della giacca, che in altri scatti tiene Giorgio Aldo in spalla marciando su un crinale erboso.
L’uomo dai riccioli bianchi accende una mezza sigaretta abbandonata nel posacenere. Apre la finestra, una corrente fredda invade la stanza. Fuori il pomeriggio invecchia. Un gruppo di grossi uccelli pascola al limite del campo incolto che degrada verso le acque lente del Brembo. Hanno un lungo becco curvo color petrolio, così come di petrolio sono le zampe e la coda, il resto del piumaggio è bianco cenere.
“Ibis” dice. “Bazzica spesso queste zone, ma è strano che sia ancora qui in questo periodo dell’anno. È originario dell’Egitto, gli antichi lo veneravano, diedero il suo aspetto al dio protettore dello scorrere del tempo e della scrittura. Laggiù è estinto, ora popola alcune zone dell’Europa. Pare sia fuggito dalla cattività, di certo si è adattato facilmente in un habitat che non era il suo ma che lo è diventato. Dicono sia invasivo, ha l’abitudine di nidificare in colonie di altri uccelli, aironi, marzaiole, pavoncelle, nitticore, cormorani, beccaccini...”
Li vediamo farsi strada oltre la fila di robinie che allungano ombre invisibili sulla terra impolverata dalla brina.
“Guardali”, mormora. “Osserva la calma con cui ispezionano il fango della golena. Cercano rifiuti, piccoli animali morti, resti, detriti. Prima che il fiume si gonfi e trascini ogni cosa via con sé”.
La corrente d’aria ha gettato sul pavimento una delle tante fotografie che popolano il tavolo. Giorgio Aldo è in braccio a un militare. Sembra reduce da un pianto o da un capriccio, si appoggia al seno di una donna mentre estrae la mano da un sacchettino di carta.
Sul retro un timbro recita DE-ZARDO FOTO BRESCIA, c’è una didascalia che non si limita alla data. La scrittura sembra femminile, il tratto è ricamato.
Giugno 1940 il sacchetto di gianduiotti ha coronato l’amicizia di Giorgetto con lo zio Alberto.
L’uomo dai riccioli bianchi riprende a raccontare. Lo zio Alberto faceva parte della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. “La milizia fascista”. C’è la camicia nera, la mostrina con la fiamma nera a due punte sul bavero, il distintivo del reparto controaerei sul braccio, il bottone con l’aquila aggrappata al fascio littorio sulla controspallina, il grado di ufficiale superiore seniore sulla manica. Dice che sono spesso gli oggetti, le cose, a parlare di più. Ha cercato la cicatrice del tale con la svastica al bavero su quel viso nascosto dall’ombra del berretto. Sono la stessa persona? Sono parenti? Non sa rispondersi, e non sa per quanto le sue domande non avranno risposta.
Il vecchio sembra stanco, torna a guardare fuori dalla finestra, gli uccelli se ne sono andati, forse non ci sono mai stati e abbiamo immaginato tutto. Sembra ancora in attesa di un responso, di una rivelazione, con lo stesso volto turbato di chi ha dimenticato e volesse ricordare. Ci sono lampi che illuminano la via, e poi di nuovo si brancola nel buio. Il vecchio soffre nel non riuscire a tracciare le linee tra i punti, a dare un senso a ciò che vede, a ciò che è stato, quando le strade si aprono e poi si chiudono in vicoli ciechi, come succede con la memoria. Non può che costruire fantasie e congetture, immaginare un futuro già passato. Un futuro che comincia il giorno di Natale dell’anno 1938.