Ho riguardato L’Eco di Bergamo dei giorni che vanno dalla fine di febbraio all’inizio di maggio 2020 per preparare un’analisi di come sono cambiate le necrologie. Sono stati giorni nei quali il giornale è stato centrale per condividere le informazioni e per tenere attive le relazioni, ma soprattutto, e lo scopro ora, si è rivelato nel suo ruolo di custode per azioni, parole e pensieri che sono accaduti e che hanno contribuito a salvarci come comunità.
Le parole
“Per fortuna avevo fatto scorta di baci e abbracci, quelli a cui sempre seguiva la frase ‘Madòna sta sò de dòs’”, scriveva Ele a sua mamma nel memoriale “Ogni vita è un racconto” che il giornale ha montato come schermo fuori dalla sua sede e che si poteva vedere in diretta streaming sul sito de L’Eco. “È stato mio compagno di classe alle elementari di via Diaz a Bergamo – scriveva invece Valerio - Non è che fossimo particolarmente amici, ma è stato un mio compagno di scuola ed è stato un pezzo, anche se piccolo, della mia vita. Riposa in pace Germano”. E ancora: “Ciao Gianluca, sono Enzo, il paradiso probabilmente tu te lo eri già guadagnato. È stato un onore per me conoscerti”.
“Sei uscito di casa con la speranza di poter guarire, ma te ne sei andato dopo soli 5 giorni, - scrive la figlia Cristiana al padre - mi raccomando cerca di progettare una radio speciale così da contattarci per dirci che andrà tutto bene”. Chiudo facendo nostre le parole di Gianna alla signora Milvia Caffi: “Brava nonna, riposa in pace”.
Prima di queste parole con cui li abbiamo salutati, altre ne sono state dette che hanno tracciato un solco tra un prima e un dopo. Quando per telefono i medici comunicavano una situazione grave e critica: quello era il modo per far capire che non c’era più niente da fare. E quello che dicevano le famiglie era di non farli soffrire. “Siamo al tetto delle cure”, “non sta rispondendo l’antibiotico”: era il modo dei sanitari per dire che il paziente non ce la stava facendo. I familiari capivano e allora spiegano che lui non avrebbe voluto un accanimento, che lui ci teneva alla sua persona e alla sua dignità.
Parole pesanti come macigni, soprattutto perché sganciate da quelle carezze e dagli abbracci che avvicinano e leniscono.
I pensieri
Chiamo così tutto il mondo di turbamenti, dubbi, sensi di colpa, preoccupazioni e fatiche che molti hanno sentito muoversi dentro di sé, spesso senza dire una parola. Perché nella narrazione che i media hanno fatto delle scelte di vita e di morte compiute in un clima di emergenza da guerra, non ci sono stati solo i medici e gli infermieri, ma anche gli operatori del 118 e le famiglie dei malati. E anche quando la morte è arrivata, chi con essa lavorato è stato chiamato a compiere scelte di senso per salvare la dignità del morto, del morire. Per salvare la propria dignità.
A monte del trasferimento dei malati in crisi respiratoria in ospedale c’era infatti una chiamata al 118. Le chiamate a fine di febbraio erano già raddoppiate, ai primi di marzo quadruplicate e alla metà dello stesso mese avevano stabilmente superato le cinque volte.
“Fino a un certo momento le situazioni in cui si sono trovati gli operatori di questo servizio non lasciavano spazio a dubbi. Il paziente veniva immediatamente trasferito in ospedale e ricoverato. Ma da un certo punto in avanti, la situazione era rapidamente precipitata e le risorse disponibili cominciavano a scarseggiare”, racconta un operatore che avrebbero dovuto intubarli tutti ma era impossibile. La rianimazione aveva esaurito i posti. A quel punto si è dovuto fare una scelta in base a tanti criteri. Arrivati a casa dei malati con i familiari, si doveva scegliere se fare tutti gli sforzi necessari per trasferire il paziente, sotto la condizione di non poterlo accompagnare, di non essere presenti al momento del ricovero, di non poter parlare di persona con il medico, di non poterlo più vedere fino alla fine del ricovero o se tenerlo in casa contando solo ed esclusivamente sulle proprie forze visto che i medici di famiglia e soprattutto l’ossigeno erano merce rarissima.
Una delle figure che più di altri ha allacciato contatti stabili e profondi con i familiari e pazienti è stato il cappellano. La domanda che più di ogni altra angosciava i familiari, raccontava, era una sola: “ma mia mamma e mio papà sono stati selezionati o sono stati scartati?”. “È una cosa che ho riconosciuto subito perché la stessa domanda che ho trovato spesso anche in Africa, dove si doveva scegliere se salvare un paziente o un altro”. La paura più grande era quella di non sapere come era morto il parente oltre a non aver potuto parlare con lui: “Avrà ricevuto l’estrema unzione?” In realtà, impartire l’estrema unzione non era sempre possibile perché implica un contatto diretto, fisico tra il prete e il morente un’eventualità rigorosamente esclusa dalle regole. Oltretutto, il cappellano non era ovunque tant’è che il Vescovo ha suggerito che fossero i medici, gli infermieri e agli appartenenti al personale ospedaliero disponibili a pregare insieme ai pazienti, ai familiari ai colleghi al capezzale del morente e a segnarlo sulla fronte.
Al pronto soccorso, ricorda il cappellano, c’era l’angolo dei morti nel senso che lì si mettevano quelli che sarebbero morti di lì a qualche ora. “Oltre a me, l’unica altra persona presente era l’infermiera che controllava se la morfina andava bene. Quando arrivavo allora la avvisavo: ‘Sono il prete faccio la preghiera’. E allora succedeva che vedevi l’infermiera prendere la mano del paziente e recitare la preghiera insieme a me. C’era anche una donna delle pulizie musulmana che tre o quattro volte ha pregato con me al capezzale”.
Poi le salme prendevano la via della camera mortuaria. Exit, si chiama questo momento. Ogni deceduto aveva il suo camice bianco pulito, veniva avvolto in un telo poi venivano confezionati questi cadaveri nel body bag. “Il fatto che questi sacchi non dovessero essere neri, ma bianchi, è stata una nostra decisione, – raccontava la responsabile della camera mortuaria - abbiamo fatto una fatica tremenda per trovarli e poi costavano anche molto di più. Ma li abbiamo avuti”. Il bianco trasmetteva pace e tranquillità e aiutava alleviare emozioni intime negative che la vista del body bag nero avrebbe potuto suscitare nei familiari. Obiettivo in quei giorni era quello di resistere a tutti i costi all’abbandono totale delle regole non scritte della dignità. Nessuna bara doveva essere lasciata a terra. Arrivati i corpi, si chiamavano al telefono i familiari prima di approvare il loro accesso alla camera mortuaria. Il regolamento prevedeva che per i soggetti fragili immunodepressi o con patologie l’accesso fosse precluso senza appello. Tuttavia, lo sforzo è stato rivolto a cercare soluzioni in grado di mantenere almeno una parvenza delle forme in cui ci si aspetta che avvenga il commiato da chi se ne è andato.
Si potevano ricevere oggetti e trasmettere la preghiera. Così, Vangeli, crocifissi, lettere, disegni (suggeriti ai bambini per salutare il nonno), accendini, sigarette, ma soprattutto gli abiti, venivano inseriti, o meglio appoggiati così come arrivavano nella cassa da morto. Anche gli operatori delle onoranze funebri hanno trovato forme alternative di contatto visivo tra i vivi e morti: alcuni hanno scattato foto dei defunti, altri hanno allestito cerimonie interattive in streaming con i parenti. La Chiesa di Bergamo ha messo a disposizione alcune chiese, ma i parroci non hanno mai concesso ai giornalisti di fotografare all’interno perché volevano che ci fosse rispetto.
In Italia, poco meno di due terzi dei funerali, in situazioni normali, vedono partecipazioni comprese tra le 11 e le 100 persone e più di un terzo sopra le 100 persone solo l’1% dei casi contava meno di 10 presenti. Questa ondata ha sconvolto tutto questo.
Le azioni
I contatti con i pazienti ricoverati e spesso segregati negli ospedali o nelle case di riposo sono stati mantenuti con tutti i mezzi possibili, e tra questi non c’erano solo gli schermi degli smartphone, ma anche inaspettati intermediari umani.
“All’inizio - raccontavano gli infermieri - portavamo i cellulari ovviamente dentro buste di plastica all’orecchio dei pazienti in modo che potessero almeno sentire quello che i pazienti dicevano. In qualche caso, siamo anche riusciti a stabilire delle comunicazioni. Nei casi più gravi poi, quando si rendeva necessaria l’intubazione vera e propria, prima di procedere facevamo una telefonata a casa, magari con il video, dove le parole proprio non uscivano. Sono stati momenti molto tremendi anche per noi perché suscitavano un’empatia generata dall’immagine che ad essere chiamata fosse tua moglie e che stessero per intubare te non un estraneo”.
Le necrologie
Di fronte all’assenza di contatti, la comunità è stata tutto tranne che passiva. Lo si legge nei testi delle necrologie che da annuncio di morte e comunicazione del funerale sono diventati veri e propri dialoghi con i defunti.
In queste parole sono racchiuse, in una sorta di Iliade bergamasca, le piccole storie di chi ci ha lasciato: le personalità, le vicende, le gioie e i dolori degli uomini e delle donne coinvolti nella grande storia. E se Omero, o chi per lui, scrisse l’Iliade per mantenerle nella memoria sociale attraverso i secoli e le culture, non è molto diverso ciò che accade in queste pagine che vanno ad accumularsi a quelle che in 140 anni hanno raccolto la storia di questa città.
Cinque i suggerimenti che sopraggiungevano nei giorni in cui il numero di pagine arrivavano oltre le dieci. Primo: resistere alla tentazione di non guardarli, un po’ come fanno certi nipoti che non vogliono più vedere la nonna morta perché preferiscono ricordarla da viva. Secondo: non andare a cercare solo le persone conosciute, lasciando perdere le altre. Terzo: non compiangere la scomparsa dei giovani accettando che quella degli ultraottantenni sia scontata. Quarto: non fermarsi solo a quei defunti i cui necrologi riempiono intere pagine, ignorando gli altri. Quinto: leggere con attenzione il necrologio della famiglia che di solito reca anche la foto.
Esce da queste pagine la richiesta pressante di migliaia di famiglie a tutto un popolo: “Il nostro caro ha subito una fine dolorosa e ingiusta: non dimenticatelo! Vi mettiamo la foto perché sia più facile riconoscerlo e, se necessario, sotto il nome e cognome aggiungiamo anche il soprannome. Per favore, non dimenticatelo perché era una brava persona e la sua vita è stata preziosa non solo per noi…”.
Per molti dei defunti, forse questa è la prima e l’unica volta nella vita in cui appaiono su di un giornale per essere visti da migliaia di persone. Le persone conosciute non hanno bisogno di avvisi post mortem… La vita spesso ha loro concesso tutto quello che uno può desiderare: affetti, fama, benessere, riconoscimento e gratitudine. Ma a questa gente che non ha fatto nulla per apparire e che è nata, vissuta e morta nel silenzio e nel nascondimento, quella piccola ribalta finale rinchiusa in pochi centimetri quadrati, diventa un doveroso riconoscimento e persino un atto di giustizia, di risarcimento di tutta una vita.
Fare memoria di un dolore non è rinnovare masochisticamente la sofferenza, ma sviluppare nei suoi confronti una sorta di reazione anticorpale. La pandemia di questi mesi ha riavvicinato all’improvviso la morte alla vita quotidiana di tutta la collettività. Ai nostri occhi, la morte è comunque rimasta inattuale, indesiderabile, nemica, responsabile di sottrarci gli affetti più cari. Eppure, abbiamo riguadagnato con essa una certa familiarità, è rientrata nei nostri discorsi. E poi, quando la morte è sopraggiunta, abbiamo riscoperto il desiderio e la necessità di gesti e parole che accompagnassero e risignificassero il dolore, il lutto, la sepoltura. In una parola, che accompagnassero il congedo.
Andando al cimitero in questi giorni, soffermiamoci sulle tombe delle donne e degli uomini che recano la data di morte di marzo e aprile 2020. Sono coloro che sono stati rapiti dal male antico e ancestrale, venuto per fare il suo mestiere contro cui la nostra impotenza è stata piuttosto evidente. Nel suo libro “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, Italo Calvino scriveva: “oggi mi sembra che al mondo esistono soltanto storie che restano in sospeso e si perdono per strada”. Con le nostre parole vogliamo proprio evitare questo.