Mi hanno chiesto di scrivere qualcosa sullo smart working. Una parola che va molto di moda in questo periodo, e non vi devo spiegare il perché. In italiano smart working è “lavoro agile”, un termine che non corrisponde al telelavoro, ci sono delle differenze burocratiche e di metodo. Ma io non è di questo che voglio e posso parlare, non ne so nulla.
Se siete d’accordo quindi usciamo dai regolamenti e dalla burocrazia e decidiamo che lo smart working qui ed ora è semplicemente il lavoro da casa. O meglio il lavoro da casa costretti.
Ho iniziato a lavorare da casa, se non ricordo male, un paio di settimane fa. Incredibile vero che non me lo ricordi di preciso in un momento come questo? Il problema è che da quando l’emergenza sul coronavirus si è fatta così seria e grave, la prospettiva di una fine – di questo autentico dramma che sta vivendo Bergamo – è incerta, nebbiosa, lontana.
Il tempo è come sospeso, le giornate sono più o meno tutte uguali anche se il mio lavoro è vario e pure creativo. Sembrano sciogliersi una nell’altra, svaniscono.
C’è il sole fuori, a me è venuta anche un po’ di allergia, ma nelle case c’è come una nebula grigia che occupa gli spazi e i pensieri. Qui da me abbiamo solo un tavolo in cucina e siamo in due a doverci lavorare sopra. Frontali, uno all’altro, i computer che si guardano, stiamo in silenzio, chini sulle nostre tastiere. Con il mal di schiena e di cervicale, perché il tavolo non è fatto per lavorare e obbliga a una postura leggermente chinata che ora dopo ora si fa sentire.
Perché non parliamo? Perché parlare significa distrarsi e distrarsi vuol dire disoccupare la mente e lasciare spazio alla narrazione tossica del coronavirus. Il lavoro allora viene buono per tenere la mente impegnata, evitare che torni lì, alla palletta con gli spuntoni del COVID-19. Un oggetto irreale diventato macabro, che si porta dietro tutto il suo carico di numeri, immagini, storie, morti. Tanti morti che il giorno dopo trovi sulle necrologie e dici questo lo conoscevo quest’altro l’ho visto ancora. Non mi sono abituato a tutte queste morti, come fai?, ma mi sono abituato al fatto che sarà così anche domani, e domani dopo ancora etc. Parlare, parliamo a pranzo e a cena, non è male essere in due.
Dovete sapere che il mio lavoro – cioè coordinare i contenuti di Eppen scritti dai nostri autori e scriverne anche io qualcuno come sto facendo ora – è un lavoro che fai soprattutto guardandoti in faccia. Alzi lo sguardo dalla scrivania e chiedi una cosa, stacchi per prenderti un caffè con qualcuno e ragioni su un progetto. Ti viene una riflessione e la proponi sapendo che qualcuno ti risponderà. Vai dalla direttrice, chiedi, spieghi. In alcuni momenti ridi e gioisci, in altri ti incazzi e ti lamenti.
In tutta l’attività di redazione umanità differenti si incrociano e cercano di dare il meglio. Ho la fortuna di lavorare in un posto dove le persone sono disponibili, l’impegno non manca e nessuno mette il proprio ego davanti alle cose che dobbiamo fare. Non è l’eden, però è una situazione che in questo momento manca e rende più difficile lavorare.
Ora ci sono tante mail, Skype, WhatsApp, le telefonate. Ma non è la stessa cosa, manca l’alchimia, che è un’intesa complessa da costruire quando lavori fianco a fianco, figuriamoci a distanza. C’è sempre una freddezza di fondo nelle nostre comunicazioni in questi giorni: un po’ è data dal questo tempo livido e insidioso, un po’ dal litio che ci separa. Hai voglia a fare squadra su WhatsApp chiedendosi tutte le mattine come stai. Sì, ok, niente febbre. Ma la verità è che nessuno in quei momenti dice davvero come sta, è una forma di protezione uno dall’altro. O forse il tentativo di evitare il malessere, reciprocamente.
Non voglio fare l’eroe e non credo neanche che i miei colleghi e i miei capi lo siano. Sono persone che cercano di fare al meglio il loro dovere. Però, diciamolo, questo dovere pesa. Facciamo comunicazione, giornalismo, chiamatelo come volete. È una responsabilità sempre, adesso è doppia, tripla. Io non faccio cronaca fortunatamente, per chi la fa deve essere difficile. Perché non siamo preparati, nessuno può esserlo del tutto davanti a una cosa del genere. E soprattutto dentro a questa cosa ci siamo anche noi. Possibili contagiati, famigliari di contagiati, persone che ogni giorno auscultano e raccontano il battito melancolico del territorio. Le morti. Non credo ci sia un altro momento come ora, in cui raccontare e vivere si sovrappongono stridendo.
Tuttavia, se invece, come il sottoscritto, non fai cronaca ma cultura? Le parole pesano comunque, qualcuna la sbagli sicuramente. E poi ti arrovelli: cosa fare in questa bolla d’angoscia che è ora il nostro presente? Che cosa dare a chi ti legge? Consigli su come passare le giornate (film, libri, dischi etc.) e ora narrazioni alternative alla narrazione dominante. Così da stare per qualche minuto in un altrove che (forse) è un sollievo brevilineo. Allora ci si organizza: mail, chiamate. Ogni narrazione nasce da un dialogo al solito telefono, che tra l’altro negli ultimi giorni stenta parecchio, le comunicazioni saltano, strani rumori dagli auricolari degli smartphone. La rete è carica, tutti cercano di parlarsi.
Quindi com’è questa benedetto smart working? Brutto. C’è di peggio, certo. Ad esempio essere medici o infermieri alle prese con la moltitudine dei contagiati e dei deceduti. Qualcuno l’avrà sicuramente già detto che il coronavirus ci ha preso la dura, non sempre allegra, normalità. Ci siamo alzati una mattina e non c’era più. Come se ci avessero rubato qualcosa a cui eravamo affezionati. Era la nostra vita in equilibrio più o meno precario. Ora siamo spaesati e tremanti. Ma quantomeno vivi, di un’esistenza che per tutti è davvero poco smart.
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