Per la prima volta nella storia della città, Bergamo ha un sindaco donna. Possiamo dire con certezza che si tratta di un fatto eccezionale, dato che sin dall’insediamento della Repubblica di Venezia nel 1428 (e sicuramente non prima), questa cosa non era mai accaduta. Eppure, quando da sostenitrice dei diritti delle donne, sui miei canali social ho esultato per l’elezione della sindaca e fatto notare l’eccezionalità dell’evento, mi è stato detto – in alcuni commenti – di non farne una “questione femminista”. Detta in altri termini, di non farne una questione di affermazione delle istanze di rappresentanza femminile. Questa cosa mi ha lasciato perplessa.
Al netto delle preferenze politiche di una persona, com’è possibile che il fatto che per la prima volta dopo 596 anni ci sia una sindaca non sia visto come un dato significativo in relazione alla rappresentanza politica delle donne? Questo dato dimostra chiaramente come le donne siano cronicamente sotto-rappresentate. Ho contato su Wikipedia che dal 1428 abbiamo avuto 252 sindaci: una sindaca su un numero totale di 252 fa lo 0.40 %.
Eppure, siamo circa la metà della popolazione. Un’equa rappresentanza dovrebbe garantire che le voci e gli interessi delle donne siano adeguatamente riflessi nei processi politici. Senza un’adeguata rappresentanza femminile, le politiche non possono rispondere pienamente alle esigenze e agli interessi dell’intera popolazione. Se volessimo essere davvero corretti e riequilibrare le cose, i prossimi 251 sindaci a Bergamo dovrebbero essere donne. Inoltre, anche qualora ci sia una donna in una posizione di potere, questo non significa necessariamente che sia rappresentativa degli interessi della maggioranza delle donne. Si capisce bene allora come il problema della sotto-rappresentanza si complichi.
Su questo spinoso argomento è uscito un bel lavoro della professoressa Giorgia Serughetti, che si occupa di Filosofia Politica all’Università Bicocca di Milano. Si tratta del libro « Potere di altro genere. Donne, femminismi e politica ». Qui Serughetti analizza le dinamiche del populismo in relazione ai diritti e alle libertà ottenuti dal movimento per le donne nel secolo scorso. L’autrice sottolinea come nelle battaglie per i diritti delle donne devono essere centrali temi come: il reddito, la divisione del lavoro, il razzismo, la violenza istituzionale sulle persone migranti, la cancellazione culturale e giuridica delle sessualità non conformi. Senza questi temi non possiamo parlare di politiche che favoriscano una buona vita per tutte e tutti, e quindi di politiche che lavorino per i diritti delle donne.
Tornando alla nostra città, è vero che il gender gap a livello comunale e provinciale è molto più ampio rispetto a quello nazionale. Un articolo del Sole 24 Ore riporta come alle ultime elezioni comunali le aspiranti sindache fossero solo il 20%. A livello nazionale la rappresentanza va un po’ meglio, anche se ancora lontana dalla parità. Secondo Openpolis, in Parlamento oggi abbiamo 209 donne su 623 esponenti (considerando anche i membri dell’esecutivo che non sono stati eletti alla camera o al senato) cioè il 33,6%.
In seconda battuta, possiamo anche dire che la rappresentanza femminile non sia assolutamente solo una questione di numeri. I numeri sono una partenza, ma non bastano e non costituiscono il cuore del fare politica delle donne. Le donne, che hanno lavorato per i diritti delle donne, portano nell’arena politica esperienze, competenze, logiche di rapporto e prospettive di lavoro nuove. Questa diversità, se ancora non riesce ad impattare radicalmente in politica, arricchisce comunque i dibattiti e contribuisce a portare a decisione politiche comprensive delle esigenze di tutti che aiutano ad affrontare efficacemente una più ampia gamma di questioni. Gli organi politici che rispecchiano la composizione di genere della società sono meglio attrezzati per comprendere e affrontare i problemi di tutti, garantendo un allineamento che contribuisce a costruire la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche. Il contributo delle donne non è solo auspicabile, ma necessario soprattutto in un’era in cui la complessità delle questioni sul tavolo richiede il contributo di tutti.
Ho parlato di queste questioni con Sarah Childs, professoressa ordinaria di Politica e Genere all’Università di Edimburgo. La sua ricerca si concentra principalmente sulla rappresentanza politica delle donne, la teoria della democrazia rappresentativa e la politica di genere. L’ultimo libro di Childs, « Feminist Democratic Representation » scritto in collaborazione con Karen Celis, ha vinto il «Political Studies Association (PSA) W.J.M. MacKenzie Book Pice» nel 2022, uno dei premi più prestigiosi per la ricerca accademica negli studi politici. Uno dei suoi progetti più noti è «The Good Parliament», un’iniziativa volta a rendere il Parlamento del Regno Unito più rappresentativo e inclusivo, specialmente per le donne. Il progetto ha proposto una serie di raccomandazioni per migliorare la diversità e l’inclusione nel Parlamento.
CP: Da dove parte la tua ricerca nella politica di genere?
SC: Penso che per me il punto di partenza sia stato l’affermazione del femminismo della seconda ondata, che diceva: «Il personale è politico». Quest’affermazione, infatti, sfida la comprensione tradizionale di ciò che pensiamo essere politico. Sfida il dualismo, l’opposizione binaria tra privato e il pubblico e per questo sfida anche la comune associazione degli uomini alla sfera pubblica e delle donne a quella privata. Quello che gli studi femministi sulla politica hanno fatto è saper vedere la politica ovunque. Anche le relazioni al di fuori della politica formale riguardano la politica o sono esse stesse costituite da rapporti di tipo socio-politico. Quello che deriva dall’affermazione «il personale è politico» è sia una critica femminista del mondo politico formale, della politica elettorale, dei partiti politici e dei parlamenti, sia il riconoscimento dei modi in cui il lavoro svolto dalle donne nella sfera privata è ed è stato fondamentale per la capacità degli uomini di partecipare alla sfera pubblica e politica.
CP: Cosa succede quando una donna entra in politica? Cosa accade quando i corpi non previsti delle donne entrano nei luoghi della politica?
SC: Chi entra nel mondo pubblico della politica lo fa con le esperienze e il bagaglio della propria sfera privata. Le donne spesso, anche quando sono state elette, continuano molto praticamente a portare avanti i loro lavori e le responsabilità che avevano in ambito privato. Il problema è che l’uomo politico tradizionalmente inteso non è qualcuno che deve accudire famiglia o badare la casa, ma qualcuno che ha donne o personale che fanno questo lavoro quotidiano per lui. L’entrata delle donne in politica mette in discussione in molti modi il funzionamento dei nostri parlamenti e della politica. Spesso un politico ha moglie e dei figli, ma non è responsabile del lavoro quotidiano che fa andare avanti la famiglia. Quindi diamo per scontato che il politico sia in grado di lavorare ogni volta che la politica ha bisogno di lui. Si crea quindi un’opposizione tra la concezione del politico ritagliata sulla figura dell’uomo e la realtà della donna-politica. Perché la donna viene giudicata in base a questa concezione.
CP: Parliamo di un modello di soggetto politico idealmente ritagliato sulla figura maschile, rispetto al quale ogni figura femminile risulta in partenza necessariamente deficitaria. Come quest’osservazione impatta sulle scienze politiche femministe?
SC: Dal punto di vista della scienza politica femminista, questo ci permette di mettere in discussione le pratiche quotidiane e le istituzioni dei nostri partiti e dei nostri parlamenti per dire: come si fa a presumere che le persone che lavorano al loro interno siano individui, liberi da vincoli?
CP: Parli dunque di cambiamento e pratiche quotidiane. Come poter cambiare questa situazione in pratica? Tu hai fatto un grosso lavoro al Parlamento inglese, influenzando non solo il dibattito accademico, ma anche le politiche e le prassi all’interno delle istituzioni politiche.
SC: Credo sia necessario, in vari campi della politica, applicare qualcosa di simile a un quadro parlamentare sensibile alle questioni di genere. Questo quadro si basa su una serie di domande che riguardano chi è parte del lavoro e le modalità con cui questo lavoro viene svolto. Queste domande molto concrete possono essere: «Quanto le donne sono in grado di lavorare in modo paritario con gli uomini? In che misura si tiene conto dei loro bisogni e interessi? Come la partecipazione femminile impatta sui risultati dell’organizzazione? E ancora, come questi risultati vengono soddisfatti? Quali sono i bisogni sociali delle donne nel caso del Parlamento?». Mi sembra che questo tipo di domande, molto concrete, ma importanti, possano essere applicate a molti altri campi e costruire perlomeno una strada da cui partire. Quindi, prendendo per esempio in considerazione i partiti politici, possiamo chiederci molto praticamente: dove tengono le loro riunioni, quando hanno i loro congressi annuali? Che tipo di assistenza all’infanzia viene fornita? Come fanno a garantire che le donne più povere possano partecipare? Si forniscono sussidi per il loro trasporto a questo tipo di incontri? Non credo di poter dire che questa sia una specie di panacea, perché di per sé non risolve le cause di queste disuguaglianze, ma potrebbe intervenire in alcune di queste istituzioni con effetti positivi.
La professoressa Childs mi ha spiegato infine che per parlare di equità nella rappresentanza delle scienze politiche si usa il termine «rappresentanza descrittiva». «La rappresentanza descrittiva» in politica si riferisce all’idea che i rappresentanti eletti dovrebbero incarnare le caratteristiche demografiche della popolazione che rappresentano. Questo concetto sottolinea l’importanza che i rappresentanti condividano caratteristiche simili come genere, razza, etnia, età o background socioeconomico con i loro elettori. La logica alla base della «rappresentanza descrittiva» è che essa possa aiutare ad assicurare la comprensione delle esigenze dei diversi gruppi di un paese.
Secondo Childs, un cambiamento sociale di ampia portata potrebbe essere favorito dal fatto che questo principio venga applicato a tutte le sfere sociali: «Credo che uno dei punti chiave della scienza politica femminista sia stato l’ingresso di più donne nei parlamenti; quindi, ciò che chiamiamo la rappresentanza descrittiva. Questa rappresentanza si può applicare a tutti gli ambiti. Quindi si dovrebbe guardare alla distribuzione delle donne e degli uomini, in qualsiasi settore. Questa distribuzione non dovrebbe essere sbilanciata. Potremmo quindi considerare come questa distribuzione funzioni nel fare impresa, nel business. Ma potremmo anche voler approfondire come sia nel lavoro di cura e chiederci perché gli uomini non sono presenti anche lì. Quindi penso che si dovrebbe indagare in entrambi i sensi. E dovremmo cercare distribuzioni che riflettano la popolazione e individuare dove ci sono distribuzioni distorte. Dovremmo chiederci perché è così, che tipo di idee sul genere vengono riprodotte in questi tipi di sistemi, e quali sono le cose che possono cambiare per consentire a queste distribuzioni di cambiare».
Alla luce di questa ultima osservazione della professoressa Childs, penso che l’arrivo di una sindaca a Bergamo non bilanci certo la distribuzione distorta delle donne in politica sui nostri territori, ma sia comunque un inizio verso una maggiore equità nella rappresentanza politica femminile. Una strada appena iniziata che deve continuare.