Recentemente Michela Murgia ha pubblicato con Einaudi un libro molto interessante dal titolo «Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo più sentire». Il libro è una raccolta ragionata di tutte quelle frasi che le donne si sentono quotidianamente dire e che costituiscono i primi mattoni della società iniqua e non paritaria in cui viviamo. Murgia scrive: «Se si è donna, in Italia si muore anche di linguaggio. È una morte civile, ma non per questo fa meno male. È con le parole che ci fanno sparire dai luoghi pubblici, dalle professioni, dai dibattiti e dalle notizie, ma di parole ingiuste si muore anche nella vita quotidiana, dove il pregiudizio che passa per il linguaggio uccide la nostra possibilità di essere pienamente noi stesse».
Come diceva il sociologo polacco Zygmunt Bauman, imparare a nominare non è un atto tecnico, ma un processo culturale e intellettuale che fa esistere le cose. Il linguaggio è il processo attraverso cui per ogni soggetto la realtà si manifesta. Nominare correttamente le cose è importante perché da questo processo dipendono le azioni del nostro quotidiano. È qui che si gioca la partita etica tra bene e male. Sbagliare a nominare le cose crea delle confusioni dal punto di vista etico, perché come dice Murgia significa non capire la differenza tra il bene che si vorrebbe e il male che si finisce a fare. È attraverso l’impianto verbale del linguaggio che il maschilismo agisce operando l’abbassamento delle donne.
Murgia spiega come questo succeda per esempio tutte le volte che professionalmente una donna viene chiamata con il titolo della sua professione declinato al maschile. L’ingiustizia si riproduce ogni volta che nel nominare una donna non viene riconosciuto il suo ruolo professionale, ma solo quello dell’ambito privato chiamandola «signora» e chiedendole se è madre. Ogni volta che non viene interpellata per cognome, ma per nome. Oppure con il cognome ma con l’articolo determinativo davanti al cognome. Sentiamo sempre dire la Boschi, la Meloni, la Schein. Ma mai il Berlusconi, il Salvini, il Renzi. Ogni volta che i colleghi maschi meno preparati spiegano paternalisticamente a colleghe cose che sanno perfettamente. Ogni volta che a una donna si suggerisce di essere più calma, più ironica, più disponibile, meno aggressiva e soprattutto zitta.
Quello che fa Murgia è nominare, circoscrivere, fotografare l’ingiustizia che tutti i giorni le donne vivono. La difficoltà, infatti, è che siamo talmente parte dell’ambiente maschilista e tossico in cui viviamo, che è difficile leggere le piccole o grandi discriminazioni del quotidiano. Si finisce piuttosto per accusare il colpo, provando un senso di inadeguatezza, di tristezza o di rabbia (che spesso non lasciamo uscire) alle quali non è facile dare una spiegazione. Quindi nominare è il primo atto di difesa che abbiamo a disposizione. Nominare è “vedere” e capire quali strategie mettere in atto per non lasciarci influenzare da questo genere di abbassamenti.
Pertanto tutte le parole, i verbi, i modi di dire, che fanno questo lavoro di lettura dell’ingiustizia sono benvenuti. Accade però che, per quanto riguarda i temi di genere, le parole più efficaci siano parole per la maggior parte inglesi e siano tra l’altro neologismi, composti da due diverse parole come: mansplaining, patronizing, body shaming. Sono spesso parole ed espressioni nate nell’ambito della produzione di sapere legata alle ultime due ondate del femminismo: la terza ondata, che si è sviluppata negli anni Novanta negli Stati Uniti e la quarta, più recente, che è cominciata a partire dal 2010 e nella quale i social network hanno giocato un ruolo importante di diffusione dei saperi.
Sono parole ed espressioni oggi molto comuni e internazionalmente usate che tuttavia, a quanto ne sappia, non sono ancora state catalogate in una sorta di raccolta o dizionario. Una delle fonti più autorevoli su questo tema, che è per esempio, «The dictionary of the feminist theory» di Maggie Humm, professoressa emerita di studi culturali presso l’Università di East London, non contiene queste nuove espressioni. Il dizionario, utilissimo strumento, edito nel 2003 e ora ripubblicato in versione aggiornata nel 2023, fornisce definizioni di oltre 600 termini, argomenti e approcci della teoria femminista, che coprono una vasta gamma di questioni interculturali. Tuttavia, non ha ancora sistematizzato queste recenti espressioni, che i social network hanno fortemente contribuito a diffondere.
Essendo parole inglesi, sono parole verso le quali da italiane e italiani nutriamo naturalmente un po’ di resistenza. È infatti comune in Italia la retorica per la quale, per preservare la nostra lingua, è bene cercare di evitare gli inglesismi e usare sempre l’Italiano. Dopodiché la lingua, compresa quella italiana, è uno strumento sempre in evoluzione, un dispositivo che cambia a seconda delle esigenze e delle trasformazioni sociali. Se quindi una lingua fatica ad adottare nuove parole per descrivere fenomeni di ingiustizia, forse non è sbagliato aprirsi alle possibilità offerte da un’altra lingua.
La sociolinguista Vera Gheno , che si occupa di inclusività della lingua italiana, parla della lingua come un territorio delle infinite possibilità e del purismo come di un atteggiamento anacronistico, in un mondo in cui il sapere si produce per contaminazioni. In uno dei suoi recenti lavori, «Potere alle parole. Perché usarle meglio» edito da Einaudi, racconta e argomenta come conoscere il significato delle parole che mobilitiamo e saperle usare correttamente e al momento giusto ci dà un potere enorme sulla realtà che ci circonda.
E allora in questa lingua, territorio di contaminazioni, l’augurio è che si affaccino tutta una serie di termini che ci aiutano a individuare e descrivere le pratiche discriminatorie che viviamo nella nostra quotidianità. Vi è mai capitato per esempio che un uomo, meno competente di voi, vi spiegasse in modo paternalista e molto sicuro di sé, cose che sapete benissimo? La scrittrice statunitense Rebecca Solnit ha nominato questa pratica mansplaining , neologismo formato dal sostantivo man abbinato a splaining, derivato dal gerundio del verbo explain (spiegare).
Legato al mansplaining è il fenomeno del patronizing , cioè della spiegazione accondiscendente fatta a una donna da un uomo che assume atteggiamenti paternalistici, pensando di conoscere meglio di lei quello di cui lei avrebbe bisogno. Murgia aggiunge in questo ambito il tone policing , l’invito di «darsi una calmata», che spesso gli uomini fanno alle donne quando sono in una discussione in cui argomentano le loro ragioni. Elisa Pino definisce a proposito il tone policing come una forma di micro-aggressione verbale di una persona in una posizione di privilegio che si sente in dovere di silenziare un’interlocutrice.
Un termine che invece è più dell’ambito psicologico, ma può essere riferito anche a quello femminista, è il gaslighting, una forma di manipolazione che mira a confondere la persona, negando dati di realtà e minando quindi la relazione con il reale. Il termine è nato dal film di George Cukor «Gaslight» del 1944, in cui un marito, per ottenere i soldi della moglie, abusava emotivamente di lei alzando e abbassando lentamente le luci a gas di una stanza e insistendo che fosse pazza quando la moglie notava la differenza. Interessante è vedere che il titolo del film in italiano è «Angoscia», che c’entra solo parzialmente con il significato di gaslight che ha più a che fare con la manipolazione della realtà. Per approfondire, cito un articolo di #filamenti precedente.
Un’altra espressione importante, che è molto in uso anche in Italia oggi, è body shaming (body + shaming) ovvero tutta quella serie di pratiche di giudizio del corpo altrui. Come sappiamo, la maggioranza di commenti giudicanti di questo tipo avviene sui corpi delle donne, che secondo il giudizio maschilista dovrebbero concorrere per raggiungere alti gradi di accettabilità rispetto ai canoni estetici del momento. Questo termine si lega al più noto concetto femminista di oggettificazione che, come spiega l’accademica Humm (del dizionario sopra citato), significa rendere una donna un oggetto e quindi sottometterla.
Sono molti i termini che stanno nascendo in questo senso. Quello che è interessante è che questa fioritura testimonia un interesse verso i fenomeni delle discriminazioni e ingiustizie di genere, che è nuova nel nostro paese. Come dice Murgia, speriamo che nei prossimi anni queste riflessioni portino a un cambiamento culturale tale per cui non ci sarà più bisogno di dare spiegazioni.
Aggiungo infine un’ultima espressione, che è usata fuori dagli ambiti dei diritti delle donne, ma che a me è molto servita. Avete mai pensato a come alcuni uomini di potere, anche quando non sono più nelle loro posizioni professionali di comando o non si muovono nel loro ambito di interesse, riescano comunque a ottenere facilmente quello di cui hanno bisogno, come la posizione di lavoro per un figlio, o un posto all’ospedale? In Italia si parla spessissimo di raccomandazioni, di favori, ma è interessante notare quali sono i processi alla base di queste pratiche.
In inglese si usa l’espressione old boy network , un sistema informale in cui uomini delle classi agiate con background sociale o educativo simile si aiutano a vicenda sia in ambito lavorativo che per quanto riguarda questioni personali. Questo tipo di rete informale tra uomini di potere è una specie di bacchetta magica che rende possibile tutto quello che i suoi protagonisti si propongono di promuovere e avere. Le idee, i progetti, gli accordi di queste persone si concretizzano, ovviamente al di là che siano buone o meno, mentre le idee delle persone che non stanno in questi circoli di potere, per quanto brillanti, rimangono nel cassetto. Alle persone e in particolare alle donne, che non sono mai ammesse in queste reti (se non in rari casi e solo come presenze singole), la retorica attraverso la quale affermano che le loro idee sono migliori è quella del merito: l’idea ha avuto successo perché vincente. In realtà il merito non c’entra nulla, è il network degli old boy che cambia il valore dell’impatto dell’azione.