Lo scorso 7 novembre una ragazza italiana di origine senegalese è stata aggredita all’esterno di un locale di Albino da un ragazzo bianco di circa venti trent’anni . È stata insultata con frasi come «ne*ra di merda», quindi colpita con un pugno al naso e allo stomaco, ferita all’addome con un coltello in quattro punti, per fortuna solo superficialmente. La prognosi per traumi subiti emessa dall’ospedale di Alzano è stata di 15 giorni.
Una cosa che mi ha colpito molto di questa vicenda, oltre all’orrore del fatto, è stato leggere i commenti social sotto la notizia dell’aggressione data dalle diverse testate giornalistiche locali. Pensavo di leggere commenti d’indignazione, di denuncia e di solidarietà per la ragazza. Invece, ho constatato come la maggior parte commenti fosse in qualche forma a sostegno o a giustificazione del gesto aggressore.
Nei commenti c’era chi minimizzava il fatto, chi metteva in dubbio la testimonianza della ragazza, chi criticava le stesse testate giornalistiche di dare spazio a qualcosa di poco importante, chi accusava in generale le persone vittime di violenza di non si sa bene cosa e chi negava che la questione fosse di stampo razzista.
Ora io penso che la maggior parte delle persone concordi con me sull’assoluta gravità e inaccettabilità dell’episodio e come me sia preoccupata delle derive violente che possono nascere dalla mancata stigmatizzazione di certi comportamenti. Tuttavia questa sorta di “negazionismo” dice qualcosa di un’attitudine comune ai nostri territori, con cui ci dobbiamo confrontare senza mettere la testa sotto la sabbia: siamo dunque razzisti?
Tahar Ben Jelloun nel suo bestseller «Il razzismo spiegato a mia figlia» racconta come il razzismo esista ovunque e come non ci sia un paese che possa pretendere di esserne privo. Secondo l’autore francese, è bene essere consapevoli che si è sempre l’Altro di qualcuno. Il razzismo è una tendenza estremamente diffusa; tuttavia, proprio perché tanto diffusa, è capace di adattarsi ai diversi contesti sociali e politici. È quindi capace di situarsi in luoghi e tempi diversi cambiando forma. Possiamo con certezza dire che in Italia abbiamo un nostro razzismo italiano.
«Razzismo situato»
Per conoscere le caratteristiche del nostro razzismo, ho parlato con Guia Gilardoni, bergamasca, sociologa, ricercatrice, docente a contratto all’Università Cattolica di Brescia. Guia da anni lavora come project manager nel settore delle relazioni internazionali su progetti legati alle migrazioni e alle politiche d’integrazione. Recentemente ha pubblicato un libro – davvero ben pensato e scritto – che va dritto al cuore della questione: «Razzismo situato, ragioni storiche, socioculturali ed etiche per contrastarlo», della collana Quaderni CIRMiB Inside Migration. Il volume indaga il razzismo come struttura cognitiva e sociale che si fonda sull’idea che ci sia una gerarchia di razze e culture che divide l’umanità in esseri superiori e inferiori.
Il libro sostiene, in particolare, che il razzismo italiano nella sua specificità nasca e trovi i suoi caratteri distintivi nel periodo fascista e coloniale: «Il razzismo italiano odierno – spiega Gilardoni – deriva dal processo di costruzione dell’italianità, avvenuto soprattutto durante il fascismo e il periodo coloniale. Questa costruzione sociale dell’italianità, volta a costruire l’unità di un popolo al di là dei molti particolarismi culturali, che doveva fare l’Italia unendo in un sentimento di appartenenza comune i trentini ai siciliani, avvenne grazie al contrasto con i neri delle colonie, assunti come metro di paragone della ‘bianchezza’ degli italiani».
CP: Dunque, i pregiudizi che gravavano sulle persone del sud d’Italia sono stati trasferiti con più violenza, determinazione e forza sulle persone nere.
GG: Esattamente. Attraverso questo processo culturale oppositivo, confrontate con i neri delle colonie le persone del sud diventavano più “bianche”. È interessante notare che questo processo di costruzione della bianchezza degli italiani, questa manipolazione avvenuta nel periodo fascista coloniale, è cominciata circa cento anni fa. In questi cento anni trascorsi non c’è mai stato un dibattito pubblico sul tema ed è mancata una rielaborazione critica di questo processo. Anche a ciò si può imputare, almeno in parte, la ragione per la quale il razzismo di casa nostra è ancora così grezzo e manifesto.
CP: Quali sono storicamente le connessioni tra il fascismo e il razzismo italiano?
GG: Le fonti storiche che testimoniano la connessione tra il fascismo e il razzismo nostrano sono molte. Nel mio libro cito il «Secondo Libro del fascista», un testo scolastico attraverso cui si insegnava ad essere razzisti. Nel paragrafo intitolato «Cosa devo sapere sulla razza» ci sono domande e risposte attraverso cui gli alunni imparavano le basi del pensiero razzista. La razza italiana era assimilata a quella ariana e i bambini imparavano a memoria che c’erano differenze fisiche e spirituali tra le razze, che la razza ariana aveva la missione di civilizzare il mondo e che le più alte espressioni della civiltà mondiale erano dovute proprio alla razza ariana. Per almeno quattro anni nelle scuole italiane di ogni ordine e grado sono stati insegnati i principi del razzismo espressi come verità autoevidenti e inoppugnabili. Pertanto, possiamo dire che noi, come italiani, siamo stati educati per essere razzisti. Abbiamo costruito l’italianità sul razzismo e ci siamo ritrovati razzisti nell’attuale società multietnica, senza essere pienamente consapevoli del bagaglio culturale che grava sui nostri pregiudizi e comportamenti.
CP: Come si connette la questione di genere con quella razzista, come è successo nell’aggressione di Albino?
GG: La costruzione dell’identità italiana nel periodo fascista coloniale ha riguardato anche le donne. In particolare, si è lavorato sulla costruzione della «donna italiana», usando gli stessi meccanismi di contrapposizione alla «donna nera». In una società patriarcale che privilegia gli uomini va da sé che si stabilisca – attraverso meccanismi di “inferiorizzazione” – una scala sociale che vede l’uomo bianco in posizione di assoluto predominio e pone la donna nera in fondo alla scala. In questa visione distorta e aberrante la donna nera è un corpo dominato, oggetto di desiderio, consenziente e violabile.
CP: Cosa fare quindi per uscire da questa amnesia culturale, da questo negazionismo che in realtà si porta dietro un passato pesantissimo di discriminazione?
GG: Credo sia innanzitutto utile uno sforzo di comprensione per poi trasformare i nostri pregiudizi e i nostri comportamenti. Capire che siamo intrisi di razzismo, pur senza rendercene conto. Il primo passo è quindi nominare la razza, che seppur non esiste biologicamente, ha un enorme potere sociale. La parola «razza» in italiano è un tabù. Si preferisce evitarla e così facendo le si dà forza, una forza silenziosa che lavora incessantemente. Perché venga disinnescata, la razza va nominata, svelata, spiegata. Solo parlandone, osservando e analizzando come questo dispositivo agisce possiamo procedere lentamente verso un’acquisizione di consapevolezza e, auspicabilmente, forse un giorno di emancipazione. Tutti i contesti di vita quotidiana sono buoni per parlare di razza e razzismo. È come per la questione di genere o la questione ambientale. Possiamo prendere posizione sempre, perché il fenomeno è talmente diffuso e pervasivo che ovunque si presentano occasioni di intervento. E questa lotta verso l’emancipazione dal razzismo non riguarda solo le persone classificate secondo una «razza», ma tutte e tutti.
Razzismo e questioni di genere
Molte persone e associazioni hanno preso parte, lo scorso sabato 19 novembre, alla manifestazione ad Albino per chiedere giustizia per la violenza commessa dal giovane italiano . Molte ragazze afrodiscendenti hanno fatto sentire la loro voce e testimoniato con la loro presenza l’emergere di un movimento capace di leggere in modo intersezionale questioni di razza e di genere e capace di formulare risposte nuove alle vecchie questioni razziste del nostro Paese.
Queste giovani generazioni di afrodiscendenti prendono parola, raccontano la loro versione della storia e ridefiniscono i termini del dibattito pubblico sui temi della multiculturalità. Ne è esempio, il bellissimo documentario «Crossing the Color Line» della giovane regista italo-camerunense Sabrina Onana. Nel documentario ci sono le storie di queste regazze/i. C’è il mondo visto finalmente da una lente multiculturale e c’è la rivendicazione dolorosa del diritto di essere riconosciute come cittadine e cittadini di questo Paese e non lasciate fino alla maggiore età in un limbo d’incertezza. Il documentario lo potete vedere qui.
Anche in ambito letterario ci sono oggi molte autrici di discendenza africana che stanno pubblicando libri interessanti e ricchi di spunti forti di riflessione. Come Oiza Queens Day Obasuyi, giovane studiosa di diritti umani, migrazioni e relazioni internazionali che per la casa editrice People di Milano ha scritto «Corpi estranei» . Il libro racconta l’esperienza di una donna afro-discendente ripercorrendo la storia politica e culturale d’Italia. L’autrice denuncia il sistema di esclusione e discriminazione di un paese ancora non in grado di affrontare la questione migratoria e di rapportare con le minoranze etniche.
Scritto molto bene è anche «La linea del colore» della famosa scrittrice italo-somala Igiaba Scego. Il libro racconta la storia di una pittrice afroamericana, Lafanu, che vive a Roma nella seconda metà dell’Ottocento e che si trova a confrontarsi con il crescente odio razzista legato alle vicende coloniali italiane di quel periodo. La storia di Lafanu s’intreccia poi con le vicende contemporanee di Leila, afroitaliana, curatrice d’arte che, riscoprendo il lavoro artistico di Lafanu, compie un viaggio nella memoria, ma anche verso riscoperta di sé come donna appartenente ad un popolo oppresso.
Infine, poiché lo trovo meravigliosamente in tema con la critica al razzismo di casa nostra, voglio segnalarvi il libro «Negretta. Baci razzisti» di Marilena Umuhoza Delli. Marilena è una scrittrice, fotografa e regista, nata in Italia da padre bergamasco e madre rwandese. Il suo è un romanzo largamente autobiografico ambientato negli anni ’80-‘90 proprio in un paese della bergamasca dove è appena arrivata la Lega Nord. Qui la protagonista cresce affrontando piccoli e grandi abusi razzisti nascosti nella pseudo-normalità della vita di paese. Interessante il taglio ironico degli episodi, che rende il racconto giustamente pungente e sarcastico. Davvero bella nella sua complessità la figura della madre nera della protagonista: sposata ad un uomo bianco si fa paladina della superiorità dei bianchi, sottoponendo sua figlia a tutta una serie di piccole “torture”, come il sapone sbiancante, per renderla il più bianca possibile. Marilena ci conduce in un viaggio di formazione, facendo un’importante lavoro di lettura del tema razzista, fotografandone esattamente i momenti in cui emerge nella nostra vita di tutti i giorni.
Concludo con una citazione dal libro di Tahar Ben Jelloun, di cui abbiamo parlato e chi mi piace moltissimo: «Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un’altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità».