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Dobbiamo ricavare nuovi significati dal trauma collettivo del coronavirus

Intervista. Il covid-19 non è stata solo una pandemia che ha causato molte vittime. Da subito ha messo in discussione il nostro senso di “onnipotenza” e ha riportato la morte al centro del discorso pubblico. Il contagio è anche esistenziale e ci interroga sul senso delle nostre vite individuali e comunitarie. Ne abbiamo parlato con lo psiconcologo Sergio Gelfi

Lettura 6 min.

LB: Inizio chiedendole la stessa cosa che ho domandato al filosofo Davide Sisto in questa intervista. Prima dell’epidemia di coronavirus che rapporto avevamo con la morte? Non era forse un aspetto della vita rimosso dal discorso pubblico?

SG: Parlare della morte vuol dire inevitabilmente parlare anche della vita; sono le due facce della stessa medaglia. Sicuramente il tema della morte/vita è stato rimosso dal pensiero collettivo, così come i temi della sofferenza, dei valori, delle scelte sociali. In generale, possiamo dire che la ricerca dei Significati, laici o religiosi che siano, è stata estromessa dal pensiero comune. Storicamente dal secondo dopoguerra ad oggi, con l’aumento del benessere materiale e del distanziamento temporale da guerre, carestie, epidemie, abbiamo progressivamente allontanato da noi le riflessioni sulla transitorietà della nostra vita terrena, costruendo collettivamente l’illusione onnipotente del controllo su di essa. Non significando più la vita, non possiamo significare nemmeno la morte e ciò ci porta a rimuoverla dal nostro panorama esistenziale. La paura della morte è proporzionale a quanto non riusciamo o non vogliamo comprendere la vita.

LB: Con il contagio del coronavirus “la morte in solitudine” negli ospedali è diventata un evento sistematico. Niente parole e gesti d’addio dai propri cari.

SG: Ci sono infiniti modi di vivere e ci sono infiniti modi di morire; le morti a cui abbiamo assistito in queste settimane causa Covid-19, purtroppo sono state morti improvvise, in solitudine, rese drammatiche dall’iniziale impotenza dal punto di vista medico. La rapidità e l’alto numero dei decessi spesso non hanno permesso nemmeno di costruire una relazione umana di conoscenza tra i pazienti e gli operatori sanitari. Per motivi di prevenzione del contagio, gli stessi familiari non potevano assistere il proprio congiunto in questi suoi ultimi giorni di vita; spesso gli stessi familiari erano già positivi e posti in quarantena o anch’essi ricoverati. Molte persone sono morte da sole, senza i loro affetti, con l’impossibilità di salutarsi. Gli sguardi degli operatori e i loro gesti umani sono stati la loro unica e preziosa vicinanza umana negli ultimi giorni della loro esistenza terrena.

LB: È venuta meno anche la ritualità comunitaria: niente funerali o riti laici di memoria e saluto…

SG: Si è verificata l’impossibilità di svolgere quei riti funebri che rappresentano per familiari e amici l’ultimo accompagnamento, il saluto, la condivisione del dolore dovuto alla perdita. È nell’assolvimento del rito funebre che normalmente inizia la rielaborazione del lutto; senza di esso, tutte le persone legate affettivamente alla persona deceduta rischiano di protrarre un lutto che fatica a risolversi e che nei casi più gravi, può sfociare in un malessere sintomatologico.

LB: Tutto questo è avvenuto in un contesto di isolamento, angoscia verso un’entità non viva, il virus, di cui non sapevamo quasi niente e forte incertezza del futuro esistenziale e lavorativo.

SG: Dal punto di vista psicologico, l’evento Covid-19 si inquadra come un evento di tipo traumatico collettivo, con tutte le eventuali conseguenze cliniche di tipo ansioso-depressivo, traumatico e psicosomatico che esso può determinare nel singolo individuo. A livello collettivo si è passati violentemente da una posizione onnipotente che come tale si basava sulla negazione di aspetti reali, a una percezione di estrema vulnerabilità e di non controllo. Questo repentino mutamento della posizione psicologica collettiva porta inevitabilmente a un disorientamento e a un disequilibrio non immediatamente ripristinabile.

LB: Il virus ha posto l’attenzione sui significati del mondo come lo conoscevamo, non trova?

SG: In continuità con il periodo pregresso al Covid, si sottende che il benessere umano debba principalmente passare dal ripristino del suo livello economico. Forse si è perso di vista che questo sistema economico, così come quello istituzionale, il livello tecnologico raggiunto, eccetera, non sono degli a priori ontologici, ma sono strumenti costruiti collettivamente dagli esseri umani per il proprio benessere. Come nelle profezie letterarie di Asimov, sembra che oggi l’uomo debba rincorrere e combattere quanto lui stesso ha costruito. A volte sembriamo gitanti chiassosi su un autobus lanciato a folle velocità grazie alla nostra tecnologia e alla globalizzazione ma dalla guida incerta e caotica; negli sbandamenti ci acquattiamo momentaneamente per poi essere frettolosi ad accantonare i deboli e chi non ce l’ha fatta, e torniamo in fretta a sgomitare per i posti migliori.

DT: Abbiamo voluto costruire il nostro memoriale per i morti di questi mesi, ovvero il monumento con due obiettivi: ricordare (in greco menemoneuo) e ammonire (in latino moneo, da cui appunto monumento). Affinché il ricordo di ciò che abbiamo vissuto venga riconosciuto come portatore di un senso. Quel significato che la comunità ritiene opportuno ricordare a sé stessa e trasmettere ai posteri, possibilmente imparando dagli errori. Cosa ne pensa?

SG: Raccontare rappresenta per l’essere umano la conservazione del ricordo collettivo. Si scriverà molto di questi tre ultimi mesi. Aldilà di ogni ambito tecnico, raccogliere le testimonianze umane di chi c’è stato, ciascuno nel proprio ruolo, rappresenta la prima forma di rielaborazione del ricordo e di apprendimento da esso. Sarebbe un errore accantonare dalla memoria collettiva questa tragedia, tornando in fretta alla nostra routine e alla nostra frenesia pregressa al Covid. Sul lutto bisogna starci un po’ di tempo, non solo per superarlo ma anche per comprenderne i motivi e analizzare come abbiamo reagito collettivamente, cosa ha funzionato nel nostro sistema di servizi e cosa ha funzionato meno. Ben vengano gli aiuti economici per quanti oggi si trovano in difficoltà lavorativa; non c’è altrettanta preoccupazione pubblica per aiutare psicologicamente quanti hanno perso un proprio caro o quanti (come i molti operatori sanitari, volontari, coloro che hanno continuato a lavorare rimanendo esposti al rischio contagio) hanno dentro di sé le ferite di un trauma emotivo spesso vissuto in solitudine. Oggi è presente nella comunità la necessità psicologica di sentirsi meno vulnerabile sia a livello medico, istituzionale e sociale.

DT: Don Davide Rota, superiore del Patronato San Vincenzo, ci ha portato a riflettere che per molte delle persone che abbiamo visto scorrere sulle pagine delle necrologie è stata l’unica volta in cui il loro nome è finito sul giornale. Per questo le necrologie sono un tributo alla storia delle persone che ci lasciano e alle loro famiglie. Cos’altro possiamo fare come quotidiano locale per elaborare a livello di comunità di lutto?

SG: In assenza di una ritualità funebre individuale e di un accompagnamento familiare alla persona deceduta, diventa importante ogni iniziativa mirante a realizzare una ritualità collettiva. È ciò che succedeva anche in passato dopo i numerosi eventi bellici che purtroppo hanno caratterizzato la nostra storia. C’è il bisogno di ricongiungersi con i nostri cari che ci hanno lasciato in questo periodo. Bisogna ridare accompagnamento e dignità anche a coloro che sono morti; le dimensioni e la rapidità di questa epidemia hanno reso numeri e anonimi molti di quelli che ne sono stati colpiti. Esiste un tempo degli affetti anche nel fine vita; il Covid-19 ha spazzato via anche quello ed ora è necessario recuperarlo. Ogni iniziativa che possa concretizzare questa ritualità collettiva appare oggi appropriata; individuare un luogo simbolo di questo evento, raccogliere un memorandum di tutti i deceduti, individuare iniziative di sostegno per i familiari rimasti in difficoltà, dare la possibilità ai familiari di esprimere pubblicamente il dolore e il ricordo, realizzare riti funebri collettivi in memoria, sono tutte iniziative che a livello comunitario possono aiutare a colmare quello strappo che l’epidemia ha determinato tra chi ci ha lasciato e chi è rimasto.

DT: Siamo la terra della “Danza macabra” e del “Trionfo della morte”, dove i vivi danzano con i morti perché non scordano mai quale è il destino che ci accomuna. Poi Freud ha detto che nessuno crede in fondo alla propria morte. Secondo lei dove pende l’ago della bilancia?

SG: Beh, tornerei all’inizio di questa intervista cioè, all’opportunità di ripensare ai significati che diamo al nostro esistere e al nostro morire. Purtroppo religiosi, filosofi, sociologi, psicologi sociali, produttori di cultura, pensatori, sono tutte funzioni sociali ormai fuori moda, poco ascoltate. Le voci di un ripensamento critico della nostra società sembrano essere sempre più tenui, così come più esigue sono le persone disposte ad andare oltre a quelle dimensioni individuali e materiali che spesso ci illudono di rappresentare le uniche misure del nostro percorso biografico. Eppure, i molti temi globali recenti quali i migranti, il modello socioeconomico, il cambiamento del mondo del lavoro, l’emergenza ambientale, le disgregazioni familiari, eccetera, come sintomi visibili ci segnalano quali sono i significati collettivi ma impliciti che stiamo dando alla vita e che richiediamo ai nostri governanti; non volendo portare a livello di consapevolezza questi significati, non possiamo neanche porci in modo critico e evolutivo rispetto ad essi.

LB: Cosa possiamo fare allora?

SG: Affinché ognuno possa trovare le proprie risposte esistenziali, bisogna prima impegnarsi a cercarle; questa tragedia ci dà l’opportunità di riprendere tutti insieme quella ricerca perduta, così da evitare l’illusione di controllare o di rimuovere la morte dai nostri orizzonti o di atterrirci di fronte ad essa quando irrompe così violentemente nelle nostre vite.

Sergio Gelfi ha lavorato come psiconcologo presso gli ospedali Riuniti/Papa Giovanni di Bergamo, di Manerbio (BS) e dal 2014 lavora presso il Policlinico di Ponte San Pietro dove si occupa anche di assistenza agli operatori e di cure palliative. Psicoterapeuta della famiglia, è consulente per i tribunali, coordina lo Studio di Psicologia Relazionale di Mozzo e in passato ha svolto missioni formative in contesti di emergenza, quali Rwanda, Congo, Haiti.

(immagini da https://www.shutterstock.com/it/g/Happyperson/)

(in collaborazione con Daniela Taiocchi)

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