L’altro ieri come tutte le mattine stavo andando a lavarmi. Di poco spostato dalla soglia del bagno ho trovato uno scarafaggio riverso sulla schiena che muoveva freneticamente le zampe. Ogni tanto nella mia casa spuntano degli scarafaggi: è un’abitazione abbastanza vecchia, degli anni Settanta, con diverse fessure fra i muri e il pavimento, qualche interstizio nelle giunture dei mobili e un giardino abbastanza grande intorno che ha tutta una sua popolazione di insetti assortiti.
Fra questi, appunto, gli scarafaggi. Quando ne vedo uno penso subito a Franz Kafka, alla “Metamorfosi” e a come il nostro abbia dato agli scarafaggi – ma era poi davvero uno scarafaggio quello del racconto? – un compito, che riguarda l’innocenza, o meglio la mancanza di innocenza. Insomma quando uno scarafaggio arriva a incrociare il nostro sguardo, di giorno pur essendo lui un animale notturno, significa che non è innocente, che si porta dietro sempre un significato. E chi lo liquida infastidito, magari uccidendolo pure, si sta perdendo qualcosa: un messaggio, una congiuntura fra la propria vita e la sua.
Io gli scarafaggi e gli insetti cerco di portarli fuori, li metto in un bicchiere tappandolo con un foglio di carta. Quando l’altro ieri ho portato fuori lo scarafaggio e l’ho appoggiato a terra, è morto. L’ho visto morire con i miei occhi. Lo scarafaggio, che appunto non è mai innocente, mi ha portato la morte, la sua. Che è anche il significato: nel tempo del coronavirus abbiamo la possibilità di assistere alla morte di uno scarafaggio ma non a quella di una persona cara contagiata, che viene portata in terapia intensiva e se non riesce a superare la crisi muore senza poter vedere nessuno. Senza un’ultima parola e un ultimo sguardo.
Cosa significa tutto ciò? Primo che la questione coronavirus, come più volte mi è capitato di leggere in queste settimane, è un accadimento di specie. Il virus è diretto all’uomo ed è una realtà non-viva molto aggressiva, che sta ai margini del vivente e con somma stupidità riesce a compiere una sola azione, ovvero replicarsi (come osservava Slavoj Zizek nel suo instant book “Virus”). Secondo che con tutte queste morti causate dal morbo dobbiamo fare i conti, ora ma soprattutto dopo.
Una catastrofe
La cronaca ha ampiamente raccontato che cosa significa tutto questo qui a Bergamo.Isaia Invernizzi, nel suo lavoro sui dati delle persone decedute su L’Eco di Bergamo, ha quantificato in circa 4.800 le persone morte a causa del covid-19, con punte di mortalità in alcuni paesi come Alzano Lombardo, Nembro e altri (senza dimenticare la questione delle Rsa). Se pensate che il paese in cui vivo, Bagnatica, è popolato da 4.329 persone (dato Istat 2017), potete capire che per Bergamo e la sua provincia quel un numero sia spaventoso. Come se nel giro di un mese o poco più la popolazione di Bagnatica venisse cancellata totalmente. Una catastrofe nel senso più radicato della parola.
La Treccani dice che “catastrofe” è “il nome dato da alcuni scrittori antichi (e impropriamente attribuito ad Aristotele) alla soluzione, di solito luttuosa, del dramma”. È però più interessante l’etimologia: catastrofe significa “rovesciamento”, “capovolgimento”. Qualcosa che è andato all’opposto di come funziona normalmente. In che senso?
Da ormai alcuni giorni l’Italia intera – e quindi la provincia di Bergamo – si interroga sul futuro economico del nostro Paese. Un futuro oscuro, incerto, su cui in molti si stanno arrovellando. C’è anche un’ampia riflessione sulle conseguenze sociali di tutto questo tempo liberocostretto in casa. Manca però, o quantomeno non è sufficiente rispetto all’entità della catastrofe, una riflessione sul futuro psichico italiano, e su quello del territorio bergamasco travolto da un terremoto inaspettato, dall’angoscia di un fenomeno dai contorni poco comprensibili che sembrava inizialmente controllabile e poi si è rivelato come causa di un’autentica morìa. Un’inermità di specie non troppo dissimile a quella di uno sciame di insetti investito da un insetticida (non è questa la sede per indagare le responsabilità di questo sconvolgimento, ma ci sono ottimi articoli in giro).
“Tutti mi muoiono intorno”
Canta queste parole Giulio Casale. Un verso che riassume bene la sensazione di essere impotenti e circondati. L’appuntamento freddo e quotidiano con il numero dei deceduti. La paura, il dolore, la solitudine. Quantità collettive mai viste (4.800), qualità dei singoli, delle famiglie: la mancanza, la perdita senza la possibilità di un’ultima parola. E poi, la catastrofe, il capovolgimento: un’assenza di ritualità, non poter salutare i propri cari prima ma doverlo fare dopo, quando il corpo è già cenere, risultato di un meccanismo inevitabile vista la situazione (morte, bara, crematorio, cenere). Saltando un passaggio fondativo. L’orfanità di un processo, religioso o meno, su cui si basa la nostra cultura e le nostre tradizioni. La doppia privazione della dignità di chi muore subendo un male che soffoca nella solitudine siderale di una terapia intensiva: muori senza che qualcuno ti tenga la mano; sai che la persona che ami è morta senza che potesse tenere la mano a te. Non c’è possibilità di un funerale quale rito collettivo di una comunità, giusto qualche sentita preghiera per chi ci crede. E neanche di una memoria fisicamente condivisa. Solo un + 1 nelle statistiche.
Come affronteremo tutto questo? Non dobbiamo fare l’errore di sottovalutare il contraccolpo psichico di quanto sta accadendo. Non dobbiamo farlo perché nel Paese c’era già un problema psichico. Non dobbiamo farlo perché la sopravvivenza fisica come singoli e come comunità non è l’unica di cui ci dobbiamo occupare. C’è una sopravvivenza emotiva e esistenziale di cui dobbiamo avere cura, riguarda noi, il prossimo e la società. Certo, ci sono gli psicologi, gli psichiatri e i filosofi, il loro lavoro quantomai necessario, ma forse non basta. Serve un piano che non è meno importante di quello economico per la ripartenza del Paese.
“Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi”
Nel 2015 Laurie Anderson ci ha regalato un film bellissimo, “Heart of a Dog”. È una narrazione di storie che si intrecciano, accomunate dal grande mistero irrisolto della morte. C’è quella del suo cane Lolabelle, quella della madre con cui aveva un rapporto complesso, quella solo accennata ma sempre presente di Lou Reed, e poi il dopo 11 settembre, il “Libro tibetano dei morti”, il Bardo e le tante altre cose di una pellicola di densità unica. Una riflessione sulla morte che germina ed intreccia altre storie. Un gesto artistico fecondo da cui è impossibile uscire indenni.
Ecco, io penso che la visione di un film come “Heart of a Dog” potrebbe fare bene a tutti. Ad un certo punto della narrazione spunta una frase di David Foster Wallace, “ogni storia d’amore è una storia di fantasmi”, che è una delle tante suggestioni che vengono rilasciate. Ma al di là delle credenze di Laurie Anderson quello che è importante è come “Heart of a Dog” racconta il proprio modo di fare i conti con il trauma. Così che il nostro lutto, ma anche solo l’esperienza di queste settimane, ce li possiamo portare dietro senza che ci schiaccino. In altre parole, abbiamo tutti bisogno di una cura per le conseguenze psichiche di quello che stiamo vivendo.
Non sono uno psicologo, né uno psichiatra o un filosofo. Posso solo spiegare che cosa ho sviluppato io nel corso del tempo: una specie di religione della memoria.
La memoria è una parola avvizzita. A me sembra stia perdendo significato. Il nostro tempo sommerso di informazioni e stimoli facilita la confusione e la dimenticanza. Celebrazioni come la Giornata della Memoria, con tutta la buonafede e il buon senso del caso, sono sempre più stanche. Insomma la memoria va (ri)coltivata. Ed è questa l’occasione di chiederci: a cosa serve oggi la memoria?
“Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto” scrisse il poeta inglese John Donne in un suo celebre sermone. Siamo noi le parti di questo continente abitato dalle nostre vite, che devono essere instillate di memoria. È nostra la responsabilità di curare la memoria, come un orto semiabbandonato da rendere di nuovo produttivo.
Ne va della nostra specie: cosa sarebbe la Shoah senza memoria? Più nulla, probabilmente un accadimento infernale che avrebbe molte probabilità di ripetersi. Cosa saremmo noi senza la memoria delle nostre madri, dei nostri padri, dei nonni e dei fratelli, ma anche delle persone che hanno infuso un po’ della loro vita nella nostra: amici, semplici conoscenti, e tutti coloro che anche da lontano in qualche modo ci sono stati “vicini”? Saremmo nulla, omuncoli.
Esattamente all’opposto di quell’humus di legami, accadimenti, esperienze, vibrazioni spirituali e tensioni verso il domani descritto dalla filosofa statunitense Donna Haraway. L’humus che è una sostanza congregata di materie organiche e inorganiche, vive e morte, animali e vegetali, tutte insieme generative. L’humus che comprende in modo basilare anche la memoria e definisce ciò di cui l’uomo è composto. Parentele, nel senso più pieno del termine, anche con le persone che non ci sono più (ma che in noi ci sono ancora). Quel kin che in “Totem e tabù” Sigmund Freud definisce come “un gruppo di persone la cui vita forma una così intima unità fisica che ciascuna di esse può essere considerata un frammento di vita comune”. Da un’altra prospettiva: l’idea di stirpe ebraica, “Tu sei ossa delle mie ossa e carne della mia carne” – prendo in prestito queste suggestioni da “Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto” di Donna Haraway, libro carico di humus e per questo fatalmente germinale.
La presenza dell’assenza
Tuttavia la memoria delle persone che abbiamo perso è sofferenza. Ognuna di loro rivive in noi, l’assenza è in realtà una presenza nelle nostre esistenze. Una mancanza difficile da accettare, ma che può essere medicamento del dolore. Chi è scomparso non è uno spettro, ma una qualità delle nostre esistenze, una trasparenza leggermente screziata attraverso cui guardiamo il mondo e lo costruiamo nel quotidiano. Delle persone che sono andate via teniamo il ricordo di tanti giorni significativi, di tanti altri normali, entrambi vissuti insieme. E serbiamo dei piccoli particolari che a volte ritroviamo in noi o nelle persone che ci affiancano: ad esempio il tono della voce, alcune parole usate in modo ricorrente, un certo modo di camminare, un gesto che si ripete. Fino ai desideri, agli sguardi sulla realtà, agli insegnamenti che scavalcano una visione della vecchiaia concepita come un peso e non una risorsa.
Il grande scrittore messicano Octavio Paz disse che “la memoria non è ciò che ricordiamo, ma ciò che ci ricorda. La memoria è un presente che non finisce mai di passare”.
Noi ci troviamo in questo momento con un grandissimo bisogno di memoria. La morte nel tempo del coronavirus è un qualcosa di incompiuto. L’ultima parola che non ci hanno dato il tempo di dire, come se in un dialogo con il destino quest’ultimo se ne fosse andato sbattendo la porta, lasciandoci a metà frase. Siamo interdetti. Con il rimpianto profondo di non aver potuto pronunciare ciò che sentivamo.
La morte di qualcuno che ci è caro è sempre una ferita. Questa morte è una ferita che rischia di suppurare, perché non ci è stata data la possibilità di vivere la fine com’è pratica degli esseri umani, secondo dei passaggi fondativi, una ritualità. Ci serve una terapia, ciascuno la sua. Per quanto mi riguarda la scrittura – anche questa che state leggendo ora – è sempre una terapia sulla morte, ma è la mia terapia, ce ne possono essere altre, ovviamente prima di un supporto psicologico che può essere essenziale.
In questo senso L’Eco di Bergamo ed Eppen hanno pensato a un progetto chiamato “Ogni vita è un racconto”, che esordirà nei prossimi giorni. Una forma di memoria che coinvolgerà chi ne sentirà il bisogno. Una piccola terapia che non ha pretese di guarigione, ma può aiutare a ricordare, e quindi a medicare, attraverso la scrittura che è sempre un riparo. Ciascuno potrà scrivere la propria memoria di una persona cara, cercando di dire ciò che non è stato possibile dire o semplicemente rievocando l’unicità di chi per tanti anni ci ha vissuto a fianco. O ancora lasciando una preghiera nel nome di una fede che vive la morte come speranza di risurrezione. Le parole sono un medicamento, uno sporcarsi le mani nel proprio humus, che è anche quello degli altri, vivi o morti, umani e non, viventi e non viventi. Una persona che abbiamo amato, un cane, un oggetto, addirittura un virus: ogni cosa è memoria, siamo immersi in una terra generativa. Dobbiamo provare a fare crescere un fiore. Forse potrà essere ciò che faremo di tutta questa morte.