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Come ho imparato ad amarmi nonostante l’amore

Racconto. #disabilità / Ho letto molti romanzi, tantissimi, che narravano amori fantastici, passionali e pieni di colpi di scena. Poi mi sono affidata alla teoria, ai manuali, ai saggi. Capivo ad un certo punto che c’era qualcosa che mi mancava. Del resto se la realtà è molto più deludente della finzione, in alcuni casi, può addirittura superarla. E non è sempre un bene

Lettura 4 min.

Francesco Alberoni ha scritto un’opera illuminante per il mio percorso di ascesi. Si intitola “Innamoramento e amore” e descrive i due momenti come passaggi diversi. Il primo è lo stato nascente di un sentimento imprevedibile e irrazionale, impetuoso e soprattutto temporaneo. Il secondo è la stabilizzazione e il consolidamento di tale sentimento che culmina in una relazione – ma la diversità dei due stati ammette perfino che si possa amare qualcuno ed essere innamorati di qualcun altro.

Ad un certo punto di questo libro, Alberoni scrive che “La differenza tra innamoramento e amore è all’incirca di venti centimetri”. Il concetto di “distanza” mi ha sempre affascinata. I confini non mi spaventano, anzi. Penso che sia fondamentale ritagliarsi un proprio spazio “vitale”, invalicabile o quanto meno accessibile a pochi, che ci riservi la possibilità di rivendicare un sentimento importante e spesso sottovalutato: il cosiddetto amor proprio.

Il nostro giudizio è figlio dei condizionamenti culturali che ci hanno abituati a concepire i rapporti in termini di bigamia. Questa dicotomia, apparentemente insuperabile, si traduce in tutte quelle filosofie di pensiero – in genere animatamente sostenute da persone coniugate o dai single per scelta – che descrivono il matrimonio come la tomba dell’amore e le relazioni stabili come prive di brio. È da questa visione che deriva quel tremore dell’anima che spingeva Don Giovanni ad andare sempre alla ricerca di nuove “vittime”. Perché il piacere svaniva con la concretizzazione della conquista. Un po’ come quando ci innamoriamo di qualcuno che appare perfetto e scopriamo che la sua idealizzazione coincide con una conoscenza solo parziale o addirittura immaginaria. Perché se anche Brad Pitt è stato accomodato alla porta, quei film di cui parlavo all’inizio, sono alla stregua dell’idealizzazione: fumo sugli occhi.

Le parole che non (ti) ho detto

La verità è che con questo cappello introduttivo ho solo tergiversato. Perché anche se in questo spazio non faccio altro che raccontarmi senza mezzi termini e soprattutto senza ipocrisia, c’è una cosa che odio fare più di tutte: espormi sentimentalmente.

Per imparare a parlare ci ho messo tempo. O meglio, ci sono voluti anni a capire che potevo fidarmi della mia voce e smettere di credere che l’unica arma per non essere fraintesa, per tirare fuori le mie emozioni, e soprattutto per essere presa sul serio, fosse la scrittura. Ma non scrivo perché sono “vittima” della mia condizione, non dirò che la disabilità è stata un ulteriore handicap per le mie relazioni, perché non è vero.

Ero vittima di una mancanza di fiducia, rispetto alla possibilità di meritare un amore che riuscisse ad alleggerire i miei pesi. Intendo anche la mia pesantezza d’animo, la mia proverbiale incapacità di non pensare al peggio, anche se decido di cambiare lato della strada e pensare che morirò solo a causa di quella “deviazione”.

E non parlo di merito in termini morali, perché se è vero che dobbiamo smettere di pensare alla disabilità come ad uno “stigma” che chi ama decide di accollarsi, dobbiamo anche avere il coraggio di essere onesti e dire che se la disabilità è un peso per chi la vive, non vedo perché chi ci sta a fianco dovrebbe prenderla a cuor leggero.

Ho imparato a convivere con tanti “no”, privazioni che solo da adulta ho percepito come tali, perché ci sono semplicemente cose che non ho mai concepito come possibilità. Tipo mettermi seduta con le gambe incrociate in posizione indiana, senza farmi venire i crampi dopo due secondi, è stato sempre il mio sogno. Quindi come la metteremmo se mi innamorassi di qualcuno che insegna Yoga?!

Scusa se non ti chiamo “amore”

La prima cosa che l’Amore mi ha insegnato è l’incoscienza. La spensieratezza che non mi sono concessa a vent’anni e neanche quando ne avevo quindici. Amare significa smettere di preoccuparsi dell’apparenza e iniziare a curare i dettagli.

Ecco perché ho sempre odiato la banalizzazione tutta moderna che ruota attorno al lessico dell’amore. Se ci insegnano su tutti i libri la differenza tra disabile, diversamente abile e handicappato (perdonerete la brutalità), non vedo perché la cassiera del ristorante che ho appena conosciuto debba permettersi il lusso di chiamarmi “Tesoro”!

Per me “amore” ha sempre significato “appartenenza”. Una sensazione che ho sperimentato dopo aver passato nove lunghi anni a vivere circondata da giochi tutti miei, vizi e vestitini personalizzati, all’interno di una stanza su cui aleggiava una targa più o meno invisibile che simboleggiava il mio “status”: figlia unica.

Ricordo ancora il privilegio che mi concesse il pediatra, facendomi entrare nella sala neonatale dell’ospedale per permettermi di tenere in braccio quella che era nata per essere “mia” sorella. Un bacino lieve sulla fronte e una sensazione di felicità impagabile riassunta in un aggettivo possessivo.

Lezioni di autostima

Non so se sono sempre stata all’altezza dell’Amore, non so ancora se sono in grado di meritarlo, ma ho imparato a riconoscerne le diverse sfumature. L’ho sentito negli abbracci dei miei amici, in un piatto di pasta condiviso, in luoghi lontani da casa che ho imparato a chiamare “casa”. L’ho visto negli occhi buoni di chi mi ha fatto capire, anche senza parlare, che potevo prendermi una tregua dalle mie severità e che avevo il diritto di sentirmi felice e non in colpa. Felice per la vita che ho scelto, in barba a tutte le insidie mentali che mi impedivano di pensare che la mia indipendenza fosse anche solo possibile.

Sarò onesta nuovamente e non negherò che la disabilità è una presenza talvolta ingombrante in una relazione. È per questo che ci impone di mantenere alte le nostre aspettative, perché non è facile trovare un equilibrio tra il bisogno di avere qualcuno a fianco che non sminuisca le nostre difficoltà e le comprenda senza che diventino una preoccupazione costante.
Sembrerà banale e facile “sulla carta” ma la verità è che ci riempiamo la bocca di buoni propositi o di pietismo, fermando il nostro pensiero ad una comprensione solo superficiale.

Alcuni anni fa, per la mia ricerca di tesi, ho conosciuto tre donne affette da cecità, colleghe di mio padre. Le intervistai durante una giornata di lavoro e mi fu subito chiaro che la paura iniziale rispetto al rischio di essere inopportuna o invadente, mi aveva fatto perdere di vista il fatto che prima di comprendere le difficoltà legate alle loro disabilità dovevo ricordarmi che ciò che le definiva erano innanzitutto le loro storie.

Uso il plurale perché la prima cosa che mi disse Barbara – mamma e moglie arrivata ad uno stadio di cecità completa in modo graduale – era che il primo errore che si commette, quando si parla di disabilità, è di credere che le disabilità siano tutte uguali. Del resto io stessa mi ero recata in ufficio per intervistare “le cieche della stanza 172”. E mentre la loro vita era ricca di amore, nel contesto attorno si alternavano sorrisi e sospiri compassionevoli per un destino così ingiusto da accanirsi su quelle tre “povere” ragazze.

Mi sono sentita fortunata perché implicitamente mi si attribuiva lo stesso tipo di “povertà”. Perché se loro stesse si prendevano gioco di chi entrava nella loro stanza annunciando la presenza di un bellissimo sole, come se la cecità includesse anche l’impossibilità di sentirlo percependone il calore, potevo fare molto di più che arrabbiarmi.

Potevo essere come loro e cogliere un insegnamento fondamentale: non restare impotente di fronte al tuo destino e lasciare che l’amore verso sé stessi sia il sole che ti splende dentro.

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