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#bestof2023: diario semiserio di una bergamasca a Copenaghen

Articolo. Un piccolo spaccato di vita danese per capire se davvero i paesi scandinavi sono quelli con il tasso più alto di felicità al mondo, tra piste ciclabili, sport, caffè lungo, orari di lavoro contenuti, feste di Natale e hygge. Ma qual è davvero il vero segreto della famosa felicità danese?

Lettura 7 min.
Copenaghen

A noi italiani sembra che tutti nel mondo mangino pasta a mezzogiorno, bevano il caffè espresso, si bacino quando si incontrano, si coordinino quando camminano per la strada. Per dirne alcune delle più banali. E invece non è così, come ci hanno già raccontato da Londra.

L’arte dello “schivamento”

Quando cammini per la strada in Danimarca, in un marciapiede stretto, le persone che ti vengono incontro generalmente non si spostano: non avviene quel mutuo coordinamento che c’è nei paesi mediterranei. Quello spostarsi anche solo di poco insieme, in maniera pre-conscia e impercettibile per permettere a tutti di procedere senza fermarsi. No, il danese tendenzialmente non varia la sua traiettoria. Ti devi spostare tu. Ma mica perché è cattivo, è che proprio non ti vede, lui va dritto per la sua strada. Il suo sistema percettivo è concentrato su di sé – diciamo. Ecco, in questo #filamento sarò forse un po’ acida, ma visto che ci vivo mi sembra anche divertente sfatare un po’ di miti sulla perfezione dei paesi scandinavi, e dire anche che i poveri danesi, svedesi, norvegesi amerebbero di contro tantissimo vivere dove viviamo noi. A proposito di usi e costumi, ho scoperto recentemente che non dovremmo essere poi così lontani gli uni dagli altri, dato che i Longobardi, o almeno una parte di loro, pare siano giunti nel I secolo a.C. dalla Scania, cioè dalla Scandinavia.

Ma torniamo alle strade di Copenaghen, che sono già un luogo ideale per capire la differenza tra due culture. A Copenaghen le macchine sono poche, e sono super rispettose dei ciclisti, che sfrecciano in massa sulle piste ciclabili e dei pedoni. Per questo il ciclista e il pedone sono tendenzialmente tranquilli. Il danese può continuare dritto per sua strada con i sistemi percettivi a basso funzionamento perché non gli succederà mai niente. Se fosse in Italia sarebbe ovviamente un uomo morto. Perché noi non ne abbiamo consapevolezza, ma per sopravvivere nelle nostre città abbiamo un livello di attivazione delle facoltà percettive che è dieci volte quello del nord Europa. Da quando usciamo di casa schiviamo: macchine, scooter che ci fanno il pelo, cacche di cani, vicini che non vogliamo incontrare, SUV che ci travolgono. Ognuno se ci pensa può compilare la sua lista personale di “schivamenti” quotidiani (tipo curriculum) e capire quanta energia gli ci vuole per mantenersi vivo in Italia. Naturalmente la quantità degli “schivamenti” raddoppia se sei una donna . E se sei disabile, sei campione olimpico. E qui arriviamo al cuore del discorso, cioè il punto che – a mio parere – differenzia la vita scandinava con quella italiana: il rapporto con lo stress e il benessere conseguente del saperlo tenere sotto controllo.

La calma. Un’estrema, intollerabile, calma

Facciamo una premessa, come dice a proposito Meik Wiking in «Hygge la via danese alla felicità», in Danimarca c’è un welfare strepitoso. E c’è anche un ampio sostegno pubblico allo stato sociale. Un sostegno che nasce dalla consapevolezza del fatto che il modello di welfare trasforma la ricchezza collettiva in benessere. Come dice Wiking, in Danimarca non si pagano le tasse: si investe nella società, nella qualità della vita. La chiave per comprendere gli elevati livelli di benessere in Danimarca è la capacità del modello di welfare di ridurre il rischio, l’incertezza e l’ansia tra i suoi cittadini e di prevenire l’estrema infelicità. Posso testimoniare che è tutto vero.

Dopodiché fatemi essere un po’ cattivella, e raccontarvi un po’ di lati divertenti della vita danese.
In Danimarca, tutti sono calmi. Se vai a bere un caffè, che costa “solo” 5 euro e sa tendenzialmente di pesce, devi calcolare almeno venticinque minuti abbondanti per avere la tazzina in mano. Colui che ti servirà si prenderà infatti tutto il tempo necessario per fartelo, andando con molta, molta calma anche se ad aspettare ci sono trentacinque persone. Queste 35 persone, infatti, non si lamenteranno mai dell’attesa, ma staranno composte in fila ad aspettare silenziosamente il loro turno mentre passano gli anni. È in questi momenti che l’imbruttita bergamasca che è in me prende il sopravvento, comincia a guardarli torva e a dire a voce anche alta: «ma ti tiri insieme o no?», espressione che per fortuna loro non capiscono. Comunque, dopo un po’ di anni, ci si abitua e si comincia ad apprezzare questo stile di vita rilassato.

No, i bambini «non prendono freddo»

L’ora di punta dei danesi per il rientro dal lavoro sono le tre e mezza. Non ci sono code di macchine al rientro, ma code di biciclette che sfrecciano sulle ciclabili, ovviamente incuranti delle condizioni climatiche spesso a loro avverse. D’inverno ci sono questi bambini bellissimi senza sciarpa e cappellino in tuta da sci, seduti davanti alle bici cargo, sfreccianti nella la pioggia mista neve che batte con il vento orizzontale, che sorridono. E tu pensi ad Alberto Angela e alla tenacia di vita delle specie umane sulla terra. Sarà che da piccoli li lasciano con le carrozzine fuori di casa o dai locali, sotto la pioggia, la grandine, la neve, così si temprano. E si temprano davvero. In Italia sarebbero tutti segnalati ai servizi sociali. Qui invece ti guardano male se la bambina non la lasci un po’ all’aria. In questo lasciarli all’aria, farli scorrazzare nel fango, lasciarli mangiare quello che trovano in giro e prendere tutti i virus che incontrano lungo la via, i danesi e le danesi mediamente vengono su bene.

Per chi volesse approfondire il metodo educativo danese c’è il best seller del 2016 di Jessica Joelle Alexander e Iben Sandahl «Il metodo danese per crescere bambini felici ed essere genitori sereni» . Sono infatti tutti mediamente in salute e di una bellezza mozzafiato. Non una pancia, un filo di cellulite, una gobbetta, un apparecchio ai denti. Nascono perfetti e si mantengono facendo un sacco di sport, che è il vero culto nazionale, non solo un modo di mantenersi in forma, ma anche di socializzare.

Una vita quasi perfetta (venerdì e sabato a parte)

A volte nelle belle giornate di sole, ce ne sono un po’ durante l’anno, sembra quasi di vivere in un rendering. Quei rendering che gli architetti fanno quando presentano il progetto per un palazzo o un quartiere. Quei rendering che in Italia, quando sono realizzati, dopo pochi anni scivolano impercettibilmente verso una certa estetica alla Scampia. In Danimarca invece rimangono per decenni esattamente come progettati dagli architetti. Perfetti, con i personaggi che fanno quello che erano stati progettati per fare: un bambino che ride, un uomo che legge un libro su una panchina, una che fa jogging sullo sfondo di un giardino con laghetto perfettamente tenuto con papera.

Diciamo che l’unico momento in cui il rendering tende pochino a scomporsi è il venerdì e sabato sera, quando, bevendo, Barbie e Ken si trasformano in lupi mannari ululanti e assatanati prima di ri-trasformarsi in umani con il calare della luna. A volte li vedo nel giardino del mio palazzo, partono sobri verso le cinque, apparecchiando il tavolo del giardino con le bandierine danesi e le tovaglie di colorate di Tiger (brand nato a proprio a Copenaghen). E tu pensi, che carini! Poi alle otto e mezza cominciano a fare giochi di gruppo degli anni Settanta e tu dici: ma pensa, che dolci, questi giochi li facevo quando ero piccola.

Poi piano piano assisti alla lenta trasformazione di Barbie, Ken e Skipper – che nel frattempo si è unita al gruppo – nell’esercito di Vikings all’assalto dell’Inghilterra, assalto che finisce trionfante in un coro ululante alle tre di notte. Ecco qui anche io, come Wonder Woman di Valverde ho una trasformazione, e divento la massaia bergamasca valligiana, che in realtà sono, e quattro paroline nella mia lingua di origine gliele urlo dalla finestra. Così per essere social. A volte la similarità delle intonazioni delle nostre lingue, non proprio raffinata e francese, rende possibile anche capirsi. Non che il concetto da capire in questo caso sia di quelli elaborati. Questo a conferma effettivamente che i Longobardi vengono dalla Scandinavia.

Comunque, il giorno dopo è tutto rendering again (ancora). Questa stessa cosa avviene per esempio durante il party di lavoro di Natale, organizzato dalle varie aziende a cui tutti i dipendenti non vedono l’ora di partecipare. Le aziende spendono milioni per organizzare queste feste, con cene e spesso con trasferte in posti esotici. Dunque, socialmente parlando, al party di Natale tutto è concesso. Ciò significa, tradotto per noi, che è totalmente normale per quella sera avere relazioni non platoniche con colleghe e colleghi senza che il giorno dopo ci siano conseguenze. Credo che la regola a casa, tra le coppie dopo la serata, sia «don’t ask, don’t tell» («non chiedere, non dire») e così si torna serenamente nel rendering. Immaginate cosa succederebbe se questa cosa avvenisse da noi: altro che rendering, sarebbe «Guernica» di Picasso.

Calzettoni di lana e non solo

Questa tendenza danese alla ricerca dell’armonia si ritrova nel concetto di hygge nel libro sopra citato di Meik Wiking. L’ hygge è una sorta di sensazione di felicità e sicurezza. Secondo Wiking, l’hygge corrisponde all’arte di creare un’atmosfera intima, piacevole, rilassata, in una certa estetica che è quella dei cuscini, delle candele, della cioccolata calda, delle cose vintage. Calzettoni spessi di lana, maglioncioni, famiglia, amici d’infanzia, giochi in scatola, camino accesso, candele, candeline, conversazioni sulle piccole cose della vita, lucette mentre fuori infuria la bufera di neve. I danesi amano l’hygge. Ed è comprensibile dato che tendenzialmente passano due terzi dell’anno al freddo e al buio. Se la felicità non la trovano fuori casa, è naturale che abbiano imparato a svilupparla dentro.

Dopodiché lasciatemi dire, rompendo definitivamente le uova nel paniere, che l’hygge non è tanto esportabile in Italia come concetto. E neanche a Bergamo, se devo dire. Pensate alla nostra tipica giornata di Natale con i parenti. Bella per carità, ma credo che possiamo essere tutti d’accordo che sia tutto per noi tranne che rilassante. Comincerebbe la zia dicendo: «ma cosa fai poi con quei calzini lì dell’anteguerra?»; continuerebbe la nonna con la spiegazione su come non infeltrire i maglioni di lana, quindi lo zio sordo accenderebbe RAI2 a volume pieno, le nipoti farebbero le imitazioni dello zio su Tik Tok, qualcuno urlerebbe «metti su le ciabattine» o «ma che profumo ha questa candela, spegnila che mi fa nausea», i cugini giocherebbero a Risiko urlando per la Kamchatka e fuori il 25 dicembre, grazie al climate change, splenderebbe il sole a ventisette gradi. Noi italiani non siamo bravi a creare un’atmosfera intima, dobbiamo accettarlo.

Forse, più che l’hygge dai paesi scandinavi dovremmo imparare il senso del bene comune, quello spirito per il quale io non posso stare bene se non stanno bene le persone intorno a me. Privilegiare il benessere della comunità a quella del singolo è qualcosa che in Italia facciamo fatica a capire. Ci sfugge il collegamento che la ricchezza collettiva è benessere per tutti e preferiamo la sanità privata, la mobilità su mezzi motore privati, la svendita di suolo pubblico alle multinazionali. Tutte cose che in Danimarca non fanno più dagli anni Settanta e quindi in verità qui quelli lenti siamo noi.

(Tutte le foto sono di Carmen Pellegrinelli)

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