Mia nonna paterna si chiamava Isola (ma la chiamavano Maria), un nome strano per una donna nata e cresciuta ai piedi di Città Alta. Da piccola mi fermavo a guardare la lapide della sua tomba e pensavo che se avessi avuto una bambina si sarebbe chiamata così. La dimensione esotica della mia famiglia si apre con lei e si chiude con mia nonna materna che si chiamava Alessandrina, ma si faceva chiamare Palmina, ovvero piccola palma. Sulla tomba Palmina non è scritto, ma ogni volta che andiamo a trovarla mia mamma mi ricorda che tutti la chiamavano così.
Per questa festa di Ognissanti propongo una personalissima visita guidata del cimitero, che tutti possono declinare sulla propria esperienza, dopo aver assistito ad una visita guidata del Cimitero di Bergamo tanto fredda e asettica che mi sono sentita in dovere di compensare.
Con queste righe vorrei raccontarvi che il cimitero è vivo. Parla e risponde a coloro che pongono le domande.
I viali portano il nome di alcuni dei Patroni di Bergamo: Alessandro, Grata, Esteria, Procolo, Rustico, Caterina, Alberto, Barbarigo, Guala, Proiettizio, Giovanni. Mentre li percorro, mi vengono in mente dei flash sulla storia di alcuni di loro e così penso a Grata che, in zona Porta Sant’ Alessandro, portava in braccio la testa di Alessandro e ad Esteria, sua serva, che ne trasportava il corpo per seppellirlo. Penso alle ossa del bergamasco Procolo esposte in Duomo e trafugate insieme a quelle di Fermo e Rustico da un gruppo di mercanti bergamaschi di passaggio da Verona, dove i tre furono martirizzati – le ossa vennero riportate a Bergamo, prima fino al monastero che ora è intitolato a Fermo, e poi in Città Alta
Trovo giusto aver intestato a loro i viali del cimitero. Come proteggono la città dei vivi, lo stesso fanno con i morti.
Gli stessi santi sono raffigurati sul mosaico di Trento Longaretti che c’è sull’altare della chiesa di Ognissanti. Gli uomini a destra e le donne a sinistra, tutti a guardare Cristo in attesa del giudizio universale. Tra le donne c’è una santa con una berretta di lana che mi ha sempre colpito. Somiglia al copricapo che mia mamma indossava quando aveva il mal di testa e questo me la faceva risultare la più simpatica tra tutte.
Prima di entrare in chiesa sulla destra c’è la tomba del fondatore de L’Eco di Bergamo e del Piccolo Credito Bergamasco, Nicolò Rezzara. Il monumento di pietra, che sembra sporco, non è da pulire perché è stato messo appositamente in marmo rosa di Verona con base verde serpentino spazzolato, quel tipo di pietra che si lascia trasformare dall’aria. Un saluto per lui non manca mai.
Sulla sinistra della porta della chiesa c’è la stele in memoria dei morti del Covid, in ricordo di quanti hanno sostato in questa chiesa nei giorni bui.
A destra della chiesa lo sguardo si posa sul campo delle croci e delle stelline dei bambini. Ce n’era uno in particolare che visitavo, Roberto Battaglia che abitava nel mio quartiere, Valtesse, ed è morto che aveva 8 anni attraversando la strada. Mamma Rosetta lo visitava tutti i giorni. Ora la tomba di Roberto non c’è più. C’è ancora la tomba che era vicina a lui, dove c’è il mosaico di una bambina con i codini che mi somigliava tantissimo.
Proseguendo verso il muro di cinta, costruito con le pietre delle vecchie muraine della città, i campi sono abitati da suore. Con il tempo, e questo mi restituisce la misura della vita che scorre, vi hanno trovato casa le mie insegnanti delle medie (Suor Luisacarla, Suor Piergiovanna per esempio) e poi alle insegnanti delle superiori.
La tappa successiva della mia personalissima visita conduce la memoria in zona Mausoleo dei caduti per la Patria 1915-18 (ma poi sono stati aggiunti anche i caduti della Seconda guerra mondiale). Nei corridoi sotterranei è stato sepolto per un bel po’ lo zio Eugenio, morto nel 1945 a 17 anni ucciso dal tifo. La storia familiare ci tramanda l’immagine dolorosissima della nonna Palmina che ha portato uno a uno quattro dei sei figli in ospedale (con il carretto del panettiere) e ne ha atteso pazientemente il ritorno in ambulanza. Tre sono tornati, mentre Eugenio no. E pensare che così giovane già non aveva le dita di una mano, staccate accidentalmente dal latte bollente. Sono felice che ora l’abbiamo tolto dalla galleria buia e si trova in una tomba con vista Maresana. Accanto ai nonni e al mio papà Giuseppe.
La tappa al vecchio tempio crematorio con il reparto Socrem (la Società di Cremazione che dal 1899 ha sede in città e che fino a pochi anni fa era l’unico ente abilitato a ricevere le intenzioni di cremazione) è popolato di nomi conosciuti in città. Tutti con lo stesso spazio a disposizione, tutti senza fiori, tutti curati con rispetto e rigore dal presidente Paolo Riva. Questa pratica di trattamento delle salme, da blasfema ed elitaria, ha subito un’accelerazione forte con il Covid superando ormai l’inumazione e la tumulazione, segno dei tempi e di una rinnovata consapevolezza – e accettazione anche da parte della Chiesa cattolica, perché il fuoco non fa altro che accelerare il processo che naturalmente il corpo subirebbe con il tempo.
Mentre mi muovo tra i viali, anche le sculture si mettono in posa. La danza straordinaria della scultura posta sopra la tomba del calciatore Piermario Morosini «Il tempo e la vita» di Francesco Spanghero, gli amanti della tomba Bonalumi che amoreggiano stesi sull’erba, la statua del tenore Edoardo Berlendis, il riposo del forgiatore di Spanghero, i fenicotteri di Elia Ajolfi.
Amo pensare che queste bellissime sculture non appartengano solo a una tomba, ma che siano di tutti i morti: delle vicine di tomba di nonna Isola (due sorelle Dora e Lina Mioni che sembrano ogni volta voler attaccare discorso); di Monica Fidanza, ragazza bellissima con gli occhi che seducono il visitatore; di Domenico Ghigliazza, giornalista de L’Eco che ho incrociato per poco ma di cui ricordo il decoro e il sorriso; di Pietro Guerra, che le cronache del Covid ricordano perché citato dal Carabiniere che guidava il camion delle bare verso i forni crematori fuori provincia; di Danilo Rota, studente dell’Itis di Bergamo che frequentava la classe quinta perito meccanica, vittima dell’incidente in cui il 9 marzo 1976 a Cavalese di Trento morirono 42 persone; di Piero Santini, capo gita della ditta Zani che ha dato avvio alle gite turistiche organizzate per i bergamaschi, capace di superare le frontiere dell’allora Unione Sovietica allungando ai soldati il salame bergamasco.
Basta passeggiare e ascoltare chi ci parla, come il signor Giorgio Milazzi, di cui la figlia mi ha recentemente ricordato un mantra: «Nelle discussioni è il più saggio colui che mollerà il colpo»; il papà di Silvia, la mamma di Ornella e quella di Tatiana.
E poi ci sono cinesi (quelli che hanno trovato casa nella nostra città), zingari (con le famiglie chiassose che fanno visita), nomi dell’Est, dell’Africa, dell’America latina. Il cimitero è davvero lo specchio della società dei vivi che si muove e cambia composizione. Senza colore politico, è semplicemente la casa di tutti. Anche dei cugini protestanti che si trovato entrando sulla destra del cimitero, oltre un ulteriore cancello. Chiusi nel loro rigore, paiono dimenticati. Ma non lo sono. Anzi. Lo sapevate che la tomba di Antonio Curò (quello del rifugio Curò) ingegnere, alpinista e entomologo si trova qui? Sua la prima ascensione della Presolana raggiunta il 4 ottobre 1870 con il cugino Federico Frizzoni, sua l’iniziativa di aprire la sezione bergamasca del Cai.
Ogni tanto, quando trovo sulla tomba il nome di qualche amico che porta lo stesso nome, faccio una foto e la mando. «Stai bene?» scrivo. Scherzo un po’ con la vita e la morte e chiudo il mio giretto.
Se siete entrati nel cimitero dal cancello di Avanmattina, uscite ora da quello di Avansera. E prima di uscire salutate e lasciatevi salutare.