Caro Gino,
premettiamo una cosa, che poi possiamo procedere con il resto: questa non ce la dovevi fare . Morire, dico. Morire ora, un giorno prima di quel momento di verità su una guerra ingiusta, falsa e laida come quella in Afghanistan, venuta a galla in tutta la sua follia dopo vent’anni e centinaia di migliaia di morti. Ma anche morire in un’epoca senza punti di riferimento, lasciandoci soli, orfani : te ne sei andato dopo De André, Gaber, Battiato, Calasso e potrei aggiungere tanti altri nomi. Sì, certo, prima o poi capita a tutti. Come loro ci hai lasciato un’eredità forte, densa – che per quanto ti riguarda è stata anche la scelta, ad un certo punto, di fare un passo indietro (chi altro lo avrebbe fatto?) e lasciare Emergency, l’espressione della tua idea sull’umano, a qualcun altro.
Però rimaniamo orfani. Orfani di persone che incisivamente ricordino che sono l’uomo e il vivente a contare più di ogni altra cosa. C’è questa sensazione di essere un po’ più soli ogniqualvolta che qualcuno incuneato nelle nostre vite se ne va. E allora non rimane che ricordare il tuo coraggio da leone, la tua disperazione tracciata sul volto e diventata una fede nella cura e nell’amore per i perdenti, gli ultimi sotto le bombe o sopra le mine anti-uomo, i pappagalli verdi come li avevi chiamati tu in un libro. Contro la guerra, sempre e comunque: “io non sono pacifista, io sono contro la guerra” . Quanta verità in questa frase, quanta potenza, quanta possibilità di un mondo diverso, l’utopia di una rivoluzione buona.
Quando ho appreso la notizia della tua morte, la prima cosa che ho pensato è stata proprio l’utopia . Come ho scritto su Facebook – perché il tanto vituperato social network a volte serve per riflettere e scrivere – tra le tante cose importanti che ci hai dato c’è quella di aver riassegnato, attraverso la tua azione, un valore positivo all’Utopia . Che non è qualcosa di irraggiungibile e scapestrato, come abbiamo imparato ad intendere in quest’epoca massimamente ideologica, dove l’unico fine è il denaro per il denaro e non sembra esserci possibilità di cambiamento. Per te l’Utopia era un significato esistenziale, un qualcosa per cui vivere e combattere. La tua convinta durezza, la tua mancanza di “mezzi termini” erano commoventi ed esaltanti , ma ci chiedevano anche da che parte stavamo e cosa stavamo facendo per essa.
Dentro ciò che ci lasci c’è questa tensione bellissima di fare qualcosa che possa migliorare il mondo . E una domanda rabbiosa (la tua) alle nostre coscienze. Venerdì scorso su Il Fatto Quotidiano Daniele Luttazzi ha pubblicato uno stralcio di un incontro durante la Festa della Scienza e filosofia del 2018. In un tempo di parole sprecate, le tue sono così pure, oneste, veritative che c’è poco da aggiungere. Bisogna fare: “La guerra piace ai politici che non la conoscono. Che votano perché l’Italia invada l’Afghanistan, senza essere in grado di piazzare l’Afghanistan su una piantina muta del pianeta. La guerra piace a chi ha interessi economici, che se ne sta ben distante dai teatri di guerra. Chi invece la conosce si fa un’idea molto presto. Io che non sono tanto furbo ci ho messo qualche anno a capire che non importa perché c’è una guerra. Non importa se la si chiama guerra contro il terrorismo, guerra per la democrazia, per i diritti umani. Guerra per questo, per quello, per quello. Ogni guerra ha una costante: il 90% delle vittime sono civili, sono persone che non hanno mai imbracciato un fucile. Sono persone che molto spesso non sanno neanche perché gli scoppia una mina sotto i piedi o gli arriva in testa una bomba. Le guerre vengono dichiarate dai ricchi e dai potenti, che poi ci mandano a morire i figli dei poveri. Questa è la realtà”.
Mentre sto scrivendo questa lettera da orfano mi è venuta l’urgenza di parlare con qualcuno che ti ha conosciuto e che ha raccolto e diffuso la tua testimonianza . Allora ho chiamato Gianmario Vitali , un professore del Liceo Federici di Trescore Balneario, che più volte ti ha invitato a parlare di guerra, bombe, mine e salvezza. Gianmario è anche il frutto buono della tua opera. Quando lo incontri ha la risata facile, una risata che sa di sapienza, quella sapienza lieve di chi si sbatte e non molla. Mi ha raccontato che tutto è iniziato fra il ’94 e il ’95, quando ti ha portato a scuola a Trescore e al Cineteatro di Rosciate. Due giorni importanti da cui è nata, insieme ad altre persone della Cooperativa Il Seme, l’idea di portare Emergency a Bergamo, di aprire una sezione sul nostro territorio. Nella primavera del 1994 Gianmario ti aveva visto al Maurizio Costanzo Show: avevi mostrato le foto delle mine-antiuomo , quelle di fabbricazione italiana, e a quel punto Gimmy – lo chiamano così Gianmario – aveva deciso di non rimanere con le mani in mano. Con i suoi studenti aveva realizzato un giornalino che raccontava dello scempio di quelle armi, lo aveva mandato a Emergency e a settembre tua moglie Teresa aveva preso in mano il telefono per contattare Gianmario. Da lì è cominciato tutto: gli incontri con Gino a scuola (una volta venne anche Jovanotti ) ed Emergency a Bergamo . Ah, Gimmy mi ha detto che non avevi poi questo gran caratteraccio, con lui sei stato sempre gentile – anche se a me il tuo carattere a dir poco spigoloso mi piaceva parecchio, soprattutto quando ti scagliavi contro l’ottusità guerrafondaia della maggior parte dei politi: tu che, fra le tante cose, rappresentavi una versione nobile della parola “politica” .
E quando è morto?, chiedo a Gianmario, che non ha tempo di sentirsi orfano, perché è troppo vivo in lui ciò che hai fatto. Quando gli ho detto che io invece orfano mi sentivo, per la scomparsa di Gino Strada e di quegli altri, lui è rimasto stupito, non ci aveva mai pensato o forse questa orfanità l’aveva interiorizzata senza saperlo ma più forte in lui riluceva la tua eredità . Sta di fatto che quando è arrivata la notizia della tua morte – in Normandia, spero che tu abbia mangiato dei gran piattoni di ostriche, perché te li meritavi – Gianmario non si è rattristato più di tanto, perché in fondo a morire era stato il corpo, ma Emergency e tutti i valori che si porta dietro sono ancora qui, belli saldi e ineluttabili . Poi mi ha raccontato una cosa che ha reso migliore la mia giornata e ha medicato un po’ la mia orfanità: quando decise di costruire un ospedale in Sudan Gino Strada chiamò per il progetto Renzo Piano . E gli disse che l’ospedale doveva essere “scandalosamente bello”, perché anche i più poveri e disgraziati hanno diritto alla bellezza. Strada ripeteva spesso che ciò che facciamo deve stupire prima di tutto noi stessi . Mi ha spiegato Gianmario che questa è un’affermazione che circola spesso negli ambienti di Emergency.
“Ciò che facciamo deve stupire prima di tutto noi stessi”.
Questa frase ci mette al muro. Per concretizzarla non serve fare il medico o l’infermiere sotto le bombe. Basta la vita di tutti i giorni. Per questo, Gino, io questa tua frase da oggi me la tengo in tasca. E ti ringrazio, per tutto. Con tanta stima e un po’ di tristezza,
Luca