Inizia oggi una nuova rubrica di Eppen a cadenza mensile. Con #bergamaschidalmondo vogliamo raccontare le vite di persone provenienti da altri paesi, che si sono integrate a tal punto da essere dei veri e propria cittadini di Bergamo.
Almir San Martin è un volto noto a Bergamo. Per dieci anni ha gestito un locale, poi è diventato un operatore culturale prima in GAMeC e poi nelle scuole. Quando ha dovuto scegliere se restare fra le Orobie o tornare in patria, in Perù, ha scelto di restare.
Si chiama catena migratoria, così la spiega Almir San Martin, è il meccanismo per cui una persona che emigra va dove può trovare qualcuno che conosce: “Se hai un contatto in un Paese, anche uno solo, tenti di raggiungerlo quando scappi da casa tua. Succede sempre così, anche per chi sale su un barcone e scappa, provi a raggiungere una persona che conosci”.
Così è successo anche a lui, nel 1988, la prima volta che è arrivato a Bergamo. Aveva un contatto con alcuni bergamaschi, nato a Lima.
Era il 1985, Almir aveva 19 anni e faceva parte di un gruppo teatrale peruviano che organizzava un festival internazionale. Fra gli invitati una compagnia teatrale italiana, il Teatro Tascabile di Bergamo.
“Il mio compito era quello di assisterli durante la loro permanenza, dovevo aiutarli con le prove, con le attrezzature, con gli spostamenti e in quei giorni passati insieme si è creato un rapporto speciale. La gente che fa teatro è molto aperta, è abituata a viaggiare, incontrare persone nuove e per loro non era difficile creare amicizie, ma in quell’occasione credo sia nato un rapporto un po’ più forte, soprattutto con Renzo Vescovi ”.
Così si spiega perché, nell’estate dell’88, appena ha avuto l’occasione di fare una piccola vacanza, Almir ha scelto di venire proprio a Bergamo a trovare gli amici del Tascabile, questa volta indaffarati in un loro festival. Si è fermato a dare una mano ai suoi amici per una settimana intera. Prima di tornare in Russia.
Sì perché Almir, il peruviano di Lima, non è scappato dalla sua città Natale per andare in Italia, ma per raggiungere la Russia dell’Unione sovietica. Poi è caduto il muro di Berlino e bisognava fuggire un’altra volta.
“Nel 1988 ho vinto una borsa di studio per andare in Russia. Avevo finito l’università a Lima, ma lì c’era il caos, diversi tipi di conflitti. I miei genitori sono sempre riusciti a dare da mangiare a me e ai miei quattro fratelli, ma fin da piccolo mia madre ripeteva a tutti noi che saremmo andati via, avremmo vissuto all’estero, per cui sapevo che prima o poi sarei partito. L’unione sovietica metteva a disposizione una serie di borse di studio per continuare la formazione in Russia, pagavano tutto, gli studi e l’alloggio, dovevo solo procurarmi il biglietto di andata e per due anni avrei avuto accesso a un corso di perfezionamento. Non avevo futuro in Perù e sono scappato”.
La storia continua con ciò che di meno prevedibile un ragazzo di 22 anni potesse immaginarsi, ovvero arrivare in Unione sovietica, assistere da San Pietroburgo alla caduta del Muro di Berlino e ritrovarsi fidanzato con una ragazza cubana dovendo decidere cosa fare: restare, andare a Cuba, scappare da qualche altra parte.
“Chi non rientrava a Cuba subito non avrebbe più potuto farlo, ma io dovevo ancora finire di studiare, mi mancavano sette mesi al termine del corso e le cose non erano così semplici, perché noi volevamo stare insieme, ma non sapevano se saremmo riusciti a farlo”. Per cui i due raggiungono il consolato russo e si sposano, così lei può tornare a Cuba e Almir può raggiungerla dopo gli studi. Nel mentre c’è un ulteriore passaggio in Italia, lavorando in un ristorante di Brescia, con un impiego come lavapiatti trovato da un’amica, e la catena migratoria si arricchisce di altri anelli.
“Ho vissuto un anno a l’Avana, ma non ce la facevo più e sono fuggito”. È il 1993, Almir non sa dove andare e non ha soldi, ma ha un contatto. Il ristorante di Brescia dove aveva lavorato ha ancora bisogno di lui, gli paga il biglietto aereo e lui torna in Italia, questa volta per restare. Lavora a Brescia, vive a Bergamo e, come racconta lui ridendo: “Grazie a una nota compagnia teatrale bergamasca riesco a regolarizzarmi”. Da lì inizia un’altra storia, quella di un emigrato peruano laureato in pedagogia, con una specializzazione in Russia, che si ritrova nell’efficiente Nord Italia con un titolo di studio che non vale niente. E deve integrarsi.
“ Bergamo non ha mai avuto bisogno dell’opera intellettiva dei migranti. Sono solo manodopera. Un lavoro intellettivo, una dimostrazione della loro conoscenza non è richiesta e io credo che così, questa bellissima città si precluda una possibilità” racconta Almir con un po’ di amaro in bocca.
Per chi lo conosce il resto è storia nota. Grazie a un annuncio sull’inserto de L’Eco di Bergamo trova lavoro in un locale, il Tropico Latino e nel 1999 prende in gestione per circa dieci anni un ristorante tex-mex a Seriate: “Avevo voglia di lavorare e l’ho fatto, anche se era pesante. Erano anni in cui vedevo tantissima differenza fra il mondo da cui venivo e quello in cui ero arrivato. A Lima le case hanno un cartello esposto con scritto ’Benvenuto’, qua al massimo c’era un ’Attenti al cane’, ma vedevo un benessere esagerato fatto di locali, settimana bianca, macchinoni e io dovevo adattarmi a un mondo”. Ma attenzione: “Non mi sentivo né superiore, né inferiore, era solo diverso”.
Superiore però Almir lo è nel fare i mojito , abilità che lo ha reso un personaggio di culto a Bergamo – ci racconta però che ora li fa solo d’estate, in alcune feste come l’Happening delle Cooperative.
Il racconto continua: “La mentalità dei bergamaschi era diversa, chiusa e allo stesso tempo disponibile. Credo che siano così perché un po’ tutto il mondo contadino è così. Io venivo da una grande città, ma anche in Perù la gente delle campagne si comporta allo stesso modo, sono chiusi, è difficile farsi accettare, ma allo stesso tempo sanno essere molto generosi”.
Dopo quella lunga esperienza nella ristorazione, però, Almir vuole tornare a insegnare. L’occasione arriva prima nel 2007 con una sperimentazione in GAMeC che gli dà l’occasione di entrare in un circuito culturale che promuove l’integrazione attraverso l’arte, poi con una cooperativa grazie alla quale realizza progetti interculturali nelle scuole.
“Per me integrazione è una parola molto eterea. Non è chiaro chi si deve integrare a chi e perché. Ci sono delle regole che tutti devono condividere e rispettare giusto? Allora credo si debba chiamare interazione. Con l’interazione si inizia a vivere e convivere in un’altra forma ”.
Su Bergamo non ha dubbi: “Gli manca solo il mare” e ride. Poi continua: “Se ci penso la parola extracomunitario è sempre meno usata e questo perché anagraficamente se ne stanno andando le persone che avevano una mentalità chiusa. Succede qua e succede in tutta Italia. La gente lo ha vissuto anche con i propri figli, partiti per fare i lavapiatti a Londra”.
Sulla questione intellettuale però insiste: “ Serve il primo impiegato di banca nero che parla perfettamente il bergamasco, allora forse inizieranno anche ad accettare i migranti per le loro capacità”.
Almir non ha fatica ad ammettere che ormai quando torna a Lima gli manca Bergamo: “All’inizio per me era un obbligo stare qua, perché dovevo scappare, ma ora sono orgoglioso di essere arrivato qui. Ho trovato persone meravigliose. Qualche anno fa ho avuto l’idea di tornare a Lima, avrei potuto insegnare all’università, ma significava mollare tutto quello che avevo qua e, anche se è difficile, mi piace il lavoro che sto portando avanti, sia a scuola che nei musei”.