L’emancipazione femminile ha compiuto passi fondamentali grazie all’introduzione di oggetti semplici ma rivoluzionari: i libri, che hanno aperto le porte dell’istruzione; gli elettrodomestici, che hanno liberato le donne dai lavori domestici più faticosi; il telefono, che ha offerto maggiore indipendenza. E infine la bicicletta, da sempre simbolo di libertà e autonomia, che ha accompagnato le battaglie per l’uguaglianza di diritti e le pari opportunità. In questo articolo, vogliamo raccontare la storia di cinque donne italiane che, in sella alla bicicletta, hanno contribuito in modo determinante alla lotta per l’uguaglianza e la libertà delle donne.
Margherita Maria Teresa Giovanna, la regina con la Bianchi color celeste
Nata a Torino nel 1851, la regina Margherita era una donna curiosa, vivace e appassionata di novità. La sua mente aperta alle moderne innovazioni tecnologiche la portò, un giorno, a scoprire sui giornali francesi un’immagine di un oggetto bizzarro: un trabiccolo con due ruote chiamato velocipede. Decisa a saperne di più, chiamò a sé a un giovane meccanico milanese, Edoardo Bianchi, che sembrava essere un esperto di questo strano mezzo di trasporto. Bianchi, appena ventenne, iniziò subito a lavorare su questi velocipedi importati dall’estero, apportando alcune modifiche: ridusse il diametro della ruota anteriore e aggiunse una catena di trasmissione tra i pedali e la ruota posteriore. Su richiesta della regina, adattò anche il sellino e ridisegnò il telaio per renderlo cavalcabile anche con ingombranti gonnoni.
Nacque così la prima bicicletta da donna: una Bianchi elegantissima, con il manubrio in avorio, il color celeste ispirato agli occhi della regina e lo stemma dorato dei Savoia. Margherita, entusiasta, iniziò a compiere lunghe pedalate a Villa Reale, la tenuta di Monza dove soleva trascorrere le estati e ad appassionarsi sempre più alle due ruote, tanto che si iscrisse al Touring Club Italiano, nato nel 1894 a Milano per diffondere il turismo in bicicletta. Intanto Bianchi divenne il fornitore ufficiale della Casa Reale e la piccola rimessa a due passi dalla basilica di Sant’Ambrogio si convertì presto in una vera e propria ciclofficina che doveva soddisfare le commesse provenienti da tutta Italia. La passione della regina Margherita per la bicicletta diede un importante contributo all’emancipazione femminile in Italia, dimostrando che anche le donne potevano praticare il ciclismo e spostarsi in autonomia.
Alfonsina Morini (conosciuta con il cognome del marito “Strada”), la campionessa
Alfonsina Morini nacque nel 1891 nella campagna emiliana, in una numerosa famiglia di braccianti analfabeti. Ancora adolescente, iniziò ad utilizzare di nascosto la bici malandata del padre per compiere lunghe pedalate notturne, sperimentando per la prima volta un po’ di libertà ed evasione dalla situazione soffocante che respirava in casa. A soli quattordici anni, cominciò a gareggiare segretamente nelle competizioni della zona, ottenendo risultati sorprendenti. In un ambiente che riteneva sconveniente che le donne andassero in bicicletta, Alfonsina non solo dimostrò che anche una ragazza poteva pedalare, ma superò spesso i suoi avversari maschi guadagnandosi il soprannome di “diavolo in gonnella”.
La bicicletta le offrì anche una via di fuga verso l’indipendenza economica. Sulle due ruote riusciva a raggiungere la città, dove lavorava come sarta e guadagnava più del padre, suscitando la sua invidia. Stanca dalla miseria e dall’ostilità della famiglia decise di andarsene. Si sposò dunque con Luigi Strada, l’unico ragazzo che non aveva obiezioni per il suo amore per le ruote tanto che come regalo di nozze le donò una bicicletta da corsa. Trasferitasi a Milano, Alfonsina iniziò a gareggiare nelle competizioni sportive per mantenersi, partecipò due volte al giro di Lombardia e nel 1924 ottenne il permesso dalla Gazzetta dello Sport di poter partecipare al Giro d’Italia, diventando la prima e unica donna a farlo. Affrontò le prime sette tappe estenuanti per poi continuare la corsa fuori classifica insieme a diversi avversari maschi per superamento dei tempi massimi.
Alfonsina Strada fu ciclista professionista per 29 anni, detenendo fino al 1992 il record mondiale dell’ora femminile, realizzato nel 1938 a 47 anni. La sua vita fu segnata dalla povertà, dalla guerra e dalla malattia del marito, rinchiuso vent’anni in un manicomio; eppure, Alfonsina non si diede mai per vinta. In piedi sui pedali, affrontò freddo, intemperie e corse massacranti superando il sospetto, lo scherno, le angherie e il maschilismo imperante. Con destrezza e tenacia Alfonsina è stata una pioniera nella parificazione tra sport maschili e femminili e ha spronato molte ragazze a non aver paura di inseguire i propri sogni. Un bel libro che racconta la vita della campionessa è «Alfonsina e la strada» di Simona Baldelli.
Antonia Pozzi, poetessa inquieta
Antonia pozzi nacque a Milano, nel 1912 in una famiglia colta e benestante. Fin da giovane, si dedicò con passione allo studio delle lettere, della filosofia e delle lingue, laureandosi con una tesi su Flaubert. Ma le sue passioni non si limitarono ai libri: la fotografia, le escursioni in bicicletta nelle campagne milanesi, così come le impegnative scalate sulle Grigne e in Dolomiti le offrirono il contatto con una natura che amava molto e che spesso esplorò in solitudine. Nella poesia, coltivata fin da giovanissima, esprime l’autenticità dell’esistenza, l’amore per la natura solitaria e severa e i dolori della vita. Colta e determinata, con un carattere forte e irrequieto, era spesso in contrasto con i rigidi dettami paterni tanto da evadere dall’ambiente caotico cittadino per ritirarsi nella villa di Pasturo ai piedi delle Grigne. La bicicletta, per lei, era simbolo di libertà ed evasione, così come le escursioni in montagna che la videro compagna di cordata di noti alpinisti, tra i quali Emilio Comici. Segnata da una profonda disperazione, Antonia Pozzi scelse tragicamente di togliersi la vita giovanissima, un giorno d’inverno, dopo aver pedalato dal liceo Schiapparelli, dove insegnava, all’abbazia di Chiaravalle. Nelle sue poesie, la bicicletta fa capolino come compagna fidata, simbolo di libertà ed evasione dalle pressioni della vita. Riportiamo «Periferia», scritta il 21 febbraio del 1938.
Sento l’antico spasimo
– è la terra
che sotto coperte di gelo
solleva le sue braccia nere –
e ho paura
dei tuoi passi fangosi, cara vita,
che mi cammini a fianco, mi conduci
vicino a vecchi dai lunghi mantelli,
a ragazzi
veloci in groppa a opache biciclette,
a donne,
che nello scialle si premono i seni –
E già sentiamo
a bordo di betulle spaesate
il fumo dei comignoli morire
roseo sui pantani.
Nel tramonto le fabbriche incendiate
ululano per il cupo avvio dei treni…
Ma pezzo muto di carne io ti seguo
e ho paura –
pezzo di carne che la primavera
percorre con ridenti dolori.
Margherita Hack, la scienziata che pedalava tra le stelle
Margherita Hack, nata a Firenze nel 1922, è stata una figura poliedrica: astrofisica di fama internazionale, sportiva appassionata e instancabile attivista. La sua storia è anche quella di una donna che, fin da giovane, ha trovato nella bicicletta un mezzo di esplorazione e libertà. La passione per le due ruote nacque presto seguendo il Giro d’Italia e i due principali rivali dell’epoca: Guerra e Binda. Il regalo per il superamento del ginnasio fu una bicicletta, che le permise di scoprire le colline toscane. «Mi ricordo che a Firenze mi buttavo giù dal Pratolino sopra Fiesole: sapevo che erano 18 chilometri e volevo farli in 18 minuti per sapere che andavo a 60 all’ora» - raccontava in un’intervista.
Oltre alla passione per la bicicletta Margherita giocava a pallacanestro e praticava atletica leggera dove ottenne risultati importanti nel salto in alto e in lungo. Laureatasi in Fisica nel 1945 con una specializzazione in astrofisica, si dedicò con successo alla ricerca, diventando una delle scienziate italiane più affermate tanto che diresse l’osservatorio astronomico di Trieste per ben ventitré anni, la prima donna in Italia a ricoprire quel ruolo. Nonostante i successi accademici non abbandonò mai il manubrio. In un’intervista rilasciata due anni prima di morire raccontava: «Mi è sempre piaciuto fare grandi girate in bicicletta. Da giovane ho fatto la Firenze-Viareggio e ritorno, poi sono stata a Udine e Gorizia. Una bella gita è stata da Trieste a Graz e ritorno. È bello andare in bicicletta, si vedono tante cose. Si possono fare dei percorsi molto più lunghi che a piedi e osservare il paesaggio, sentire l’odore della terra e delle piante, cose che in auto non si possono certo apprezzare. La bicicletta è forse il mezzo più ecologico e più divertente». La bicicletta, per Margherita Hack, non è stata solo un mezzo di trasporto, ma uno strumento di emancipazione. Con la stessa curiosità, passione e tenacia con cui si lanciava tra i vigneti della terra natia, Margherita ha pedalato tra le stelle svelando i misteri dell’universo e dimostrando che le sfide, siano esse scientifiche o sportive, non hanno sesso. Due libri che raccontano la sua passione per la scienza e le due ruote sono il romanzo autobiografico «La mia vita in bicicletta» e il fumetto «Margherita Hack in bicicletta tra le stelle» di Roberta Balestrucci Fancellu e Laura Vivacqua.
Tina Anselmi, la staffetta che divenne ministra
Tina Anselmi nacque a Castelfranco Veneto nel 1927, in una famiglia socialista benestante. Il 26 settembre 1944, mentre era studentessa all’Istituto Magistrale di Bassano, i nazifascisti fecero irruzione in città e costrinsero la popolazione ad assistere all’impiccagione di una trentina di prigionieri. Fu in quel momento che Tina decise, segretamente dalla sua famiglia, di prendere parte attivamente alla Resistenza, adottando il nome di battaglia «Gabriella». In bicicletta percorreva centinaia di chilometri per trasportare messaggi, viveri, munizioni, medicine e stampa clandestina ai compagni di brigata. Iscritta alla Democrazia Cristiana, durante i giorni della liberazione partecipò alle trattative con i tedeschi, riuscendo a ottenere che non ci fossero vittime né ritorsioni.
Dopo la guerra, si laureò in lettere, divenne insegnante e si impegnò nel sindacato, salendo rapidamente ai vertici della CISL. Con la Democrazia Cristiana, fu deputata per oltre venti anni, affrontando temi come lavoro, previdenza sociale, igiene e sanità, fino a diventare, nel 1976, ministra del Lavoro e della Previdenza Sociale, la prima donna a ricoprire questo incarico. Pur essendo profondamente cattolica, si ispirò sempre al principio di laicità nelle sue decisioni politiche, e da ministra della Sanità firmò la legge 194 per l’interruzione della gravidanza, che affermava finalmente la libertà di scelta e autodeterminazione della donna. Fu anche firmataria della legge che istituì il Servizio Sanitario Nazionale e la sua azione fu determinante per l’introduzione della legge sulle pari opportunità.
Tina Anselmi, insieme a Tina Costa, Marisa Rodano, Lidia Menapace, Onorina Brambilla, Miriam Mafai, Giovanna Zangrandi, Tiziana Bonazzola, Stellina Vecchio e molte altre donne, scelse la bicicletta invece del carrarmato, mettendo a rischio la propria vita per un’Italia libera dal nazifascismo. Un esercito silenzioso di donne, impegnate nelle fabbriche e nei campi, combatté con determinazione durante la Resistenza. Tra loro c’erano le staffette in bicicletta, giovani coraggiose spesso dimenticate dalla storia, il cui contributo fu decisivo per la vittoria. Nel libro «La Gabriella in bicicletta», Tina Anselmi racconta le vicende personali e collettive della Resistenza, le idee e le speranze che hanno guidato il suo impegno. Da partigiana a ministra ha dedicato la vita alla costruzione di un’Italia democratica e antifascista, promuovendo una cultura di pace, giustizia sociale e pari dignità.
La bicicletta non ha mai smesso di essere uno strumento di emancipazione. Grazie alle due ruote tante donne hanno aperto nuove strade, conquistando la possibilità di muoversi in autonomia, studiare e lavorare. Grazie dunque alla regina Margherita, Alfonsina Strada, Margherita Hack, Antonia Pozzi, Tina Anselmi, le staffette partigiane e tutte e tutti coloro che continuano a pedalare per l’indipendenza, la dignità e la libertà di ogni persona.
- #amisuradibici: la lotta per l’emancipazione a colpi di pedale
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