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Africa, nove colpi di Stato in tre anni. «Segnale di allontanamento dall’Occidente»

Articolo. Il Teatro Qoelet di Redona ospiterà il 22 ottobre alle 20.45, nell’ambito di «Molte Fedi Sotto lo Stesso Cielo», una conferenza di Giovanni Carbone, docente di Politica Comparata all’Università di Milano e Direttore del Programma Africa dell’ISPI. Al centro della serata una riflessione sul declino della democrazia nell’Africa Subsahariana

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(SnapshotPhotos/Shutterstock.com)

Come è possibile che una parte di mondo in cui la democrazia sembrava essersi insediata negli anni Novanta oggi rischi di cadere nelle mani dei governi autoritari? Questo è il tema della conferenza «Ci sarà ancora democrazia? Focus Africa» che Giovanni Carbone, docente di Politica Comparata all’Università di Milano e Direttore del Programma Africa dell’ISPI, terrà a Bergamo il 22 ottobre al Teatro Qoelet di Redona alle 20.45 nell’ambito di «Molte Fedi Sotto lo Stesso Cielo».

«Dopo un periodo in cui sembrava che la democrazia fosse arrivata anche nell’Africa Subsahariana, dobbiamo fare i conti con la realtà. La regione sta diventando sempre più autoritaria e i colpi di Stato sono ormai una costante della dialettica politica in molti Paesi». Così Carbone spiega la complessa situazione in cui versano regioni come il Sahel e l’Africa Occidentale da quasi cinque anni a questa parte. Noi di Eppen abbiamo avuto l’opportunità di intervistarlo, tracciando una panoramica dell’Africa subsahariana contemporanea. Dalla violenza politica alla crescente distanza dall’Europa, dal terrorismo di matrice islamica ai preoccupanti rapporti con la Russia, il Sahel sembra essere una polveriera pronta a esplodere.

Il declino della democrazia e l’epoca dei colpi di Stato

«Il peggioramento nelle condizioni della democrazia nel Sahel va letto alla luce dei più profondi sconvolgimenti che hanno attraversato la regione nel XX secolo. Per esempio, se adottiamo un’ottica di lungo periodo non possiamo non notare che gran parte dei 49 Paesi dell’Africa Subsahariana hanno reso le elezioni pluripartitiche uno standard a partire dagli anni Novanta. Di quanto queste elezioni siano libere e democratiche si può discutere, ma è innegabile che la prassi sia quella di andare a votare», spiega Carbone. Dall’ultimo decennio del secolo scorso, dunque, molti Paesi africani hanno usato le elezioni come fondamento per la propria legittimazione sul piano internazionale.

Non tutti, però, hanno inteso il voto allo stesso modo: «all’interno di questa prassi c’è sempre stata una divaricazione tra Paesi che facevano uso di elezioni con una certa possibilità di alternanza tra forze politiche e nazioni in cui i governanti restavano sempre gli stessi, tenuti al potere da risultati delle urne più o meno controllati», continua l’esperto dell’ISPI. Due esempi di queste tendenze contrapposte sono quello del Camerun e quello della Nigeria. In Camerun, infatti, la Presidenza è ricoperta ininterrottamente dal 1982 da Paul Biya, nonostante le elezioni presidenziali si tengano ogni sette anni e siano aperte a più partiti, anche se nessuno ha veramente la possibilità di contestare lo status quo. Esempio di una certa maggiore apertura è invece quello della Nigeria, Paese in cui una decina d’anni fa c’è stata un’alternanza storica tra il Partito Democratico Popolare (PDP), che aveva vinto tutte le elezioni generali dal 1999 in poi, e il Congresso di Tutti i Progressisti (APC), che attualmente controlla il Paese.

C’erano anche dei casi di democrazia apparentemente avanzata, che venivano usati dalla comunità internazionale come paradigma dello sviluppo che i Paesi del Sud globale potevano raggiungere: «Il Ghana è sempre stato portato ad esempio di buon funzionamento delle istituzioni democratiche, nonché di corretta alternanza al potere tra partiti. Poi c’erano tante situazioni intermedie, come la Costa d’Avorio, che ha vissuto un conflitto durissimo, ma che al termine delle ostilità è tornata al voto. Anche qui, però, l’attuale Presidente Ouattara è in carica da tre mandati di fila: ciò dimostra come alcuni esponenti politici pieghino il voto per i propri scopi. È quello che è successo in maniera ben più marcata in Camerun, è quello che succede anche in Ruanda», riporta Carbone. Insomma, la democrazia in Africa è esistita – con le sue fragilità e imperfezioni – fino a tempi molto recenti. « Negli ultimi cinque anni si sono verificati numerosi colpi di Stato, con cui è riaffiorata una tendenza messa da parte dagli Novanta in poi, ovvero quella all’intervento dei militari e alla loro presa del potere sul piano politico». Solo negli ultimi tre anni, in Africa si sono verificati nove colpi di Stato: uno in Niger, Sudan, Sierra Leone, Gabon e Guinea; due in Burkina Faso e in Mali. Per questo, alcuni studiosi hanno iniziato a parlare di un’ «ondata di colpi di Stato» per definire l’attuale situazione dell’Africa subsahariana.

Terrorismo ed economia: dietro alla nascita degli autoritarismi

Quali ragioni hanno spinto i militari a prendere il potere in questi Paesi? E soprattutto: che cosa ha convinto la popolazione civile a non reagire? Carbone risponde che «se prendiamo i casi di Mali, Niger e Burkina Faso, possiamo vedere delle motivazioni comuni dietro ai golpe militari. Un grosso problema è quello del jihadismo, al quale la popolazione vuole che le autorità rispondano risolutamente: il pugno duro promesso dall’esercito ha permesso loro di ottenere un certo sostegno popolare. Se guardiamo alla Guinea e al Gabon, invece, il colpo di mano è nato come ultima spiaggia in un processo di critica diretta e specifica rivolta contro un governante che cercava di stare al potere oltre misura. Queste tensioni preesistenti hanno quindi fatto da trampolino per l’intervento dei militari». Accanto ai problemi di sicurezza e a quelli politici, però, ci sono anche delle motivazioni di natura economica: d’altro canto, in Africa si stima che poco meno di 500 milioni di persone vivano al di sotto della International Poverty Line (IPL), disponendo di meno di 2,15 dollari al giorno per mangiare, bere, comprare farmaci e vestiti, pagare l’affitto e le bollette. «L’insoddisfazione nei confronti dei regimi esistenti – democratici, pseudo-democratici o dittatoriali che siano – è in primo luogo di tipo economico. Nei decenni passati molti Paesi hanno effettuato la transizione democratica, con tutte le sue imperfezioni e incompletezze, perché pensavano che avrebbe garantito maggiore benessere e sviluppo. Dopo qualche tempo hanno capito che le cose non stavano così: diverse rilevazioni statistiche effettuate sui cittadini africani dimostrano l’esistenza di un ridotto sostegno trasversale per la democrazia. Si è diffusa l’idea – per lo più sbagliata – che allo stato attuale delle cose, per l’Africa la democrazia non sia un grande affare», continua l’analista dell’ISPI.

In realtà, però, sicurezza ed economia sono strettamente connesse tra loro: «Gli attori che generano insicurezza nel teatro del Sahel sono motivati anche da questioni economiche, e la loro azione fa da freno allo sviluppo sotto ogni punto di vista. Diciamo che non si tratta di solo fondamentalismo religioso, ci sono dietro anche altri interessi», riporta Carbone. D’altro canto, il panorama degli attori violenti nell’Africa subsahariana è vasto e comprende movimenti di ogni tipo, da quelli religiosi a quelli etnici, passando per forze con rivendicazioni territoriali, indipendentiste e separatiste. « Il gruppo più conosciuto è quello di Boko Haram, che opera nella Nigeria del nord-est, ma non c’è solo quello. Anche riducendo il campo alla sola Nigeria, i movimenti attivi sono anche altri. Allo stesso modo, il terrorismo non è solo un problema nigeriano o dell’Africa Occidentale: l’estremismo islamico armato è radicato anche in Somalia e da alcuni anni nel nord del Mozambico, per esempio». Il fondamentalismo preoccupa anche perché ha una matrice chiaramente politica e anti-occidentale: « Boko Haram ha attaccato le istituzioni più occidentali attive in Nigeria: le scuole sono considerate un simbolo della persistenza della presenza estranea nel Paese, perché promuovono una cultura e uno stile di vita occidentale, che l’estremismo islamico vuole vietare. Lo stesso vale per le chiese cristiane: lo stesso nome “Boko Haram” significa “La cultura occidentale è proibita”».

Il ruolo della Russia e degli ex-Imperi coloniali

A proposito di Occidente: a complicare ulteriormente le cose, nell’Africa Subsahariana, è il complesso rapporto con l’Europa e non solo. Negli scorsi mesi, per esempio, è emerso che la Russia ha intensificato la sua presenza in Africa con una serie di interventi diretti delle milizie private Wagner, riassorbite nell’Africa Corps statale alla morte di Yevgeny Prigozhin, il leader del gruppo mercenario. Possibile che dietro all’involuzione autoritaria dell’Africa ci sia la Russia? «Credo sia sbagliato pensare che l’influenza di Mosca sia la spiegazione principale della questione. L’intervento russo è sicuramente importante, perché il Cremlino ha fin da subito sostenuto i regimi anti-occidentali, che abbandonavano il modello europeo e americano di democrazia e preferivano un potere di stampo autoritario e militare: questo la Russia lo vede positivamente, perciò appoggia le giunte militari», riporta Carbone, che tuttavia aggiunge: «Da qui in poi, però, la questione si fa più complicata, perché il rischio è quello di finire per pensare all’Africa Subsahariana come a un gruppo di Paesi dove il potere militare si è insediato ai vertici del governo solo grazie all’appoggio, alla presenza e alla spinta russa. Non è così: quei Paesi avevano problemi propri, e alcuni soggetti hanno deciso di provare ad affrontarli con soluzioni proprie, trovando però l’appoggio di Mosca nel farlo. Non immaginiamoli come Paesi semplicemente succubi della volontà del Cremlino, perché non è così».

La Russia sta piano piano acquisendo influenza in alcune aree della regione. Dentro Mosca, fuori Londra e (soprattutto) Parigi, insomma, ma anche Washington: in effetti, i rapporti dei Paesi post-coloniali dell’Africa Subsahariana con europei e americani sembrano essersi ormai irrimediabilmente incrinati: «La crisi della democrazia in Africa si spiega anche in questa luce. La democrazia è un istituto prettamente occidentale e, anche se è arrivata solo a decolonizzazione avanzata o terminata, viene identificata come un’imposizione delle potenze imperialiste. In tutto il continente c’è una forte insofferenza nei confronti del mondo euro-americano, c’è un vero e proprio rigurgito contro i valori occidentali, contro l’economia occidentale e contro le istituzioni internazionali multilaterali. La prima potenza che ne fa le spese è la Francia, che nell’Africa Occidentale e nel Sahel ha sempre esercitato una grande influenza. La Francia si è trovata più soggetta alle critiche degli anti-occidentali perché era più in vista, perché è la potenza che ha sempre tenuto un piede in Africa, anche alla fine dell’epoca coloniale, cercando di orientare le società africane – le loro economie, i loro apparati statali – e di approfondire la sua presenza politico-economica nell’area. Ora, invece, si trova espulsa (del tutto o quasi) da ex-colonie come Mali, Niger, Burkina Faso o Centrafrica. È emblematico che il nuovo presidente del Senegal, eletto qualche mese fa, abbia ottenuto consensi elettorali soprattutto grazie alla sua piattaforma antifrancese», conclude Carbone.

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