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Abbiamo capito davvero che cos’è il digitale?

Articolo. Un’intervista a Mario Verdicchio docente e ricercatore in Logica e Filosofia della scienza all’UniBg. Insieme a Cecilia Scatturin storica dell’arte e docente di Metodi e principi del digitale, ha scritto un manuale che parte dalle fondamenta delle scienze quantitative e passa alle rielaborazioni artistiche e culturali per illustrare i diversi - e talvolta contraddittori - ruoli svolti dalla digitalizzazione

Lettura 6 min.

Sono passati più di quattro anni da quando ho iniziato a occuparmi di tecnologia, un periodo nel quale studiando una realtà per me affascinantissima, almeno nelle premesse, ho messo in discussione tutte le mie certezze. Ho capito che internet non è solo un mezzo di espressione, non lo è mai stato. È sempre stato molto più di questo. Mi ci è voluta un’intervista a Mario Verdicchio, mio professore di Informatica per la comunicazione ai tempi della laurea magistrale per mettere a fuoco bene una traiettoria che non può che partire dall’origine, dall’inizio, dall’etimologia.

“Digitale”, dall’inglese “digit”, deriva dal latino digitus “dito” perché molto banalmente le dita sono lo strumento che usiamo per contare e che, manco a farlo apposta, sono dieci.

Dieci come il sistema di numerazione che usiamo tutti i giorni. E “digit” vuol dire anche “cifra”, un elemento grafico che possiamo percepire come 0 e 1.

Ogni informazione che il computer elabora viene tradotta in una sequenza di bit (binary digits), che sono semplicemente combinazioni di 0 e 1.

Insomma, tutta la magia del digitale racchiusa in due segni grafici che, disposti in sequenza, possono dare vita a combinazioni straordinarie che ci consentono di compiere operazioni come quelle che diamo per scontate tutti i giorni. Chattare, guardare una foto, leggere le mail, scaricare un certificato. Ma come e soprattutto perché diamo per assodato tutto questo è ciò che tenta di spiegare il volume «Che cos’è il digitale» edito da Carocci editore che nel titolo sembra sottintendere un punto di domanda: «Noi ci poniamo delle domande, ma questo libro vuole essere un punto di partenza, offrendo spiegazioni basilari che dovrebbero essere semplici e chiare, ma al tempo stesso approfondite e ancorate alla realtà. L’idea è di definire cos’è il digitale affinché il lettore possa affrontare le molteplici ramificazioni che il digitale ha assunto nella nostra vita quotidiana. Negli ultimi anni, infatti, queste ramificazioni si sono moltiplicate in modo significativo».

Cos’è, dunque, il digitale?

«Si tratta essenzialmente di un modo di organizzare e descrivere la realtà attraverso dati e numeri. Il termine “digitale” è ormai diffusissimo nella vita quotidiana, utilizzato sia come aggettivo (documento digitale, campagna di marketing digitale) sia come sostantivo, riferendosi a un’entità con cui ci rapportiamo costantemente. Tuttavia, questa sua natura fondamentale viene spesso trascurata o data per scontata.

Da ingegnere informatico di formazione, ho avuto modo di approfondire le basi matematiche, elettroniche e informatiche di questa realtà, comprendendo quanto chi usa il digitale nel quotidiano - per lavoro o nella vita privata - spesso non abbia idea di cosa ci sia “dietro le quinte”.

Non intendo spiegare cos’è il digitale da un punto di vista tecnologico per essere pedante o perché ritengo che sia imprescindibile partire dalle basi per comprenderlo. Piuttosto, voglio sottolineare che la sua struttura determina il suo funzionamento e, ancor più importante, ne definisce i limiti. Non intendo evidenziare le limitazioni del digitale per demonizzarlo, ma per favorire un uso più consapevole e ragionato da parte degli utenti».

La prima parte del libro è dedicata proprio a questo: spiegare il digitale come un sistema di organizzazione e rappresentazione numerica della realtà. Il divario tra la semplicità di questi meccanismi e la complessità del mondo digitale che oggi conosciamo è enorme. Sembra quasi magia che un sistema basato sull’organizzazione numerica dei dati possa dare origine a tutto ciò che caratterizza la nostra esperienza digitale. Comprendere questa distanza è fondamentale per usare consapevolmente il digitale, senza esserne dominati.

«È proprio questa consapevolezza che distingue un utilizzatore attivo da un semplice esecutore, evitando che le persone si trasformino in ingranaggi inconsapevoli di un sistema più grande di loro, di cui non comprendono le basi - che, in ultima analisi, sono di natura aritmetico-numerica.

Gli utenti del digitale devono esserne consapevoli: il digitale non è la realtà stessa, ma una sua rappresentazione numerica. Ad esempio, nel campo delle immagini digitali, il sistema funziona attraverso una descrizione numerica di forme, contorni e colori. Ogni immagine digitale è costituita da una serie di numeri che determinano la gradazione di rosso, di verde, di blu, nonché la disposizione dei pixel sullo schermo. Tutto ciò che viene trattato digitalmente deve necessariamente essere traducibile in numeri».

Non tutto può essere digitalizzato (per fortuna)

E qui arriviamo a un aspetto cruciale: non tutto può essere digitalizzato. Solo ciò che può essere descritto quantitativamente può essere trasformato in dati digitali. Questo pone una prima grande distinzione: quali aspetti della nostra vita quotidiana possono essere descritti numericamente e quali no?

«Possiamo vedere una fotografia di una rosa su uno schermo, ma non possiamo sentirne il profumo attraverso il digitale. Per percepire il suo odore, dobbiamo essere fisicamente davanti al fiore, perché gli odori non possono essere digitalizzati in quanto non esiste, al momento, una descrizione numerica per essi».

Quanto ci costa l’efficienza del digitale?

Spesso si dice che il digitale semplifica, ma Verdicchio evidenzia come anche come la tecnologia e il digitale, sollevino altri livelli di complessità.

« Prendiamo ad esempio la digitalizzazione dei certificati per i cittadini: un servizio che viene spesso presentato come un grande vantaggio. Oggi non è più necessario recarsi fisicamente all’anagrafe o in comune. Basta qualche clic su un computer o uno smartphone per ottenere un documento ufficiale.

Sembra tutto più semplice per l’utente finale, ma dietro questa apparente comodità si nasconde un’intera infrastruttura globale: cavi sottomarini che collegano calcolatori in tutto il mondo, standard imposti da aziende private – come il formato PDF della statunitense Adobe – e una catena di produzione che include la vendita di computer, server e dispositivi digitali.

Semplificare l’accesso ai documenti significa anche dipendere da un sistema complesso e altamente tecnologico. Si dice che digitalizzare riduca l’uso della carta, ma per produrre un computer servono materiali rari, processi industriali altamente inquinanti e una catena di approvvigionamento internazionali ».

C’è poi un tema ancora più ampio legato alla sicurezza degli archivi digitali che li conservano. Siamo vittime di questa stessa tecnologia: se ci fosse un blackout mondiale, tutto andrebbe perso. Un attacco hacker potrebbe cancellare cartelle cliniche, documenti di ogni genere. Non si tratta più di immaginare scenari distopici, ma di un problema reale.

«Questi scenari distopici sono ormai quasi quotidianità, considerando che i conflitti e le guerre si combattono anche su questo fronte invisibile. Esistono, infatti, servizi di protezione digitale non solo all’interno dei servizi segreti, ma anche nella polizia postale di ogni Stato.

I supporti su cui registriamo i dati digitali non sono stati testati per durare a lungo. Sono tecnologie recenti, e non abbiamo ancora certezze sulla loro resistenza nel tempo. Negli anni ‘90 e 2000 si salvavano i dati sui CD-ROM registrabili. Ecco, molti di quei CD che ho masterizzato alla fine degli anni ‘90 oggi non sono più leggibili: i dati risultano corrotti perché la superficie si è deteriorata. Non sono durati neanche trent’anni.

Eppure, gli unici archivi che abbiamo ancora accessibili dopo secoli sono quelli cartacei. I libri, se ben conservati, resistono per centinaia di anni. Abbiamo pergamene medievali perfettamente leggibili, mentre non possiamo dire lo stesso per i supporti digitali. Certo, la carta può bruciare in un incendio, ma in condizioni normali ha dimostrato di essere un supporto più durevole rispetto agli archivi digitali, che al momento non hanno ancora superato la prova del tempo».

La strategia migliore, secondo Mario Vedicchio è duplicare i dati su più supporti tecnologici diversi. Non si tratta di stampare tutto, ma di selezionare accuratamente ciò che è davvero essenziale. L’ideale è avere una combinazione di archiviazione su diversi formati, in modo da garantire una protezione su più livelli.

Uno degli errori più comuni , sottolinea il professore, è concentrarsi esclusivamente sull’aspetto tecnologico, perdendo di vista le implicazioni sociali. La tecnologia non esiste nel vuoto: viene ideata, costruita e utilizzata all’interno della società.

È quindi essenziale includere sempre il fattore umano nella riflessione su vantaggi, problemi e soluzioni. Un approccio ideale prevederebbe anche regolamentazioni adeguate e significative, capaci di emergere da un’analisi che tenga conto di tutti i fattori in gioco. Tuttavia, questo discorso rischia di restare utopistico.

«Un esempio concreto è l’intelligenza artificiale. L’Europa sta introducendo regolamentazioni avanzate, ma queste si scontrano con la necessità di non rimanere indietro rispetto ad altri continenti, dove lo sviluppo tecnologico procede senza restrizioni, creando un vantaggio competitivo. Il risultato? Si ripropone la corsa allo sviluppo tecnologico che ha caratterizzato tutto il XX secolo».

Perché l’intelligenza artificiale non è intelligente?

Uno degli aspetti problematici è che l’Ia attuale è una branca dell’intelligenza artificiale più ampia, basata prevalentemente sul machine learning. Questo sistema utilizza enormi quantità di dati per identificare schemi e riutilizzarli nella creazione di nuove combinazioni, che però restano sempre all’interno della stessa categoria di dati statistici già elaborati. Il problema è che tutto dipende dalla qualità e dalla quantità dei dati disponibili: se il contesto di riferimento è povero di informazioni, anche i risultati ottenuti saranno scadenti.

Il rischio maggiore è che l’intelligenza artificiale non possieda la capacità di astrazione e adattamento tipica dell’essere umano, che può applicare la propria esperienza a situazioni nuove. Affidandoci sempre di più a sistemi di apprendimento automatico, corriamo il pericolo di perdere la nostra capacità di affrontare problemi e trovare soluzioni autonomamente.

«Un paragone utile è quello con l’automazione industriale: ha trasformato il mondo del lavoro, causando la perdita di impieghi, ma portando anche alla creazione di nuove professioni. Oggi, però, l’automazione sta invadendo il campo del pensiero e della creatività. Se ci limitiamo ad affidarci a questi sistemi senza sviluppare un pensiero critico, rischiamo di disimparare ciò che per secoli abbiamo fatto senza il supporto dell’Ia.

In questo senso, abbiamo dei risultati che ci sono utili, per carità, ma dobbiamo imparare a pensare in modo critico e a essere credibili. Le nuove generazioni, essendo native digitali, potrebbero non essere più in grado di lavorare autonomamente, finendo così alla mercé dei dati su cui questi sistemi vengono allenati. Finché tutto funziona, nessuno se ne accorge, ma i dati vengono controllati da entità esterne che potrebbero volerci influenzare in un modo o nell’altro. A quel punto sorgono i veri problemi, e noi potremmo non rendercene nemmeno conto».

Il problema sta anche nel nome: “intelligenza artificiale” è un termine ormai consolidato, ma concettualmente improprio, perché associa due elementi profondamente diversi.

« Un essere umano pensa, una macchina elabora dati. Sono due cose distinte, e questa differenza non deve squalificare il computer, ma piuttosto guidarne l’uso con consapevolezza, evitando narrazioni fantascientifiche fuorvianti. Dobbiamo parlarne di più. Ecco perché libri come “Che cos’è il digitale?” e altri scritti, miei e di molti colleghi, non dovrebbero restare confinati nell’ambito accademico, ma essere diffusi a un pubblico più ampio, per promuovere una maggiore consapevolezza».

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