Nel film “American Beauty” (regia di Sam Mendes, cinque premi Oscar nel 2000), Kevin Spacey interpreta Lester Burnham, un padre di famiglia della middle-class americana che decide, più o meno d’impulso, di dare una svolta alla propria vita. Il punto d’inizio della sua personale rivoluzione per me è associato a una precisa percezione visiva: l’immagine di Lester in completo in ufficio e, poche scene dopo, lo stesso Lester al lavoro al drive-in della catena di fast food Mister Smiley, vestito in uniforme: camicia a righe e cappellino brandizzato.
C’è chi il lunedì mattina indossa una cravatta prima di entrare in ufficio e chi la domenica sera un grembiule e una cuffia prima di entrare in cucina: ognuno di noi interpreta ogni giorno un ruolo e spesso i personaggi che incarniamo si riconoscono da precisi segni distintivi.
Ce lo ha ricordato Elio Germano di recente: il ruolo di un attore è quello di vestire i panni di qualcun altro, e il suo talento è diventare quel personaggio, anche usando un semplice elemento scenico che evoca una grammatica di gesti, modi, ambienti. Stavolta è la box del food delivery che ci catapulta, insieme all’attore bergamasco Tiziano Ferrari, in una curiosa modalità teatrale: il teatro-delivery di Teatro degli Affamati.
Al posto di pizza, kebab o piatti sfiziosi di altro genere, Ferrari consegna un altro tipo di nutrimento, quello per lo spirito. La provocatoria comunanza tra teatro e delivery ha già ispirato iniziative in alcune città italiane e Tiziano Ferrari ne propone la sua personale versione: da lunedì 7 dicembre, per tutta la durata delle feste natalizie – e chissà, magari anche dopo – l’attore prende prenotazioni e porta le ordinazioni a casa. Monologhi e testi scelti da un menù teatrale, per chi desidera dai 5 ai 20 minuti di “ristoro dell’anima”. Rispettando tutte le norme anti-Covid, in linea con il suo personaggio, Ferrari si muoverà, dove possibile, con bici o monopattino comunale, e proporrà i suoi prodotti su offerta libera e responsabile, anche a costo zero, per chi si trova in ristrettezze economiche. Una voce in più, tra quelle del teatro bergamasco, ad affermare con forza la capacità lenitiva di arte e poesia, anche solo per pochi minuti nelle nostre giornate.
LD: Covavi questa idea già in primavera o è stata un’ispirazione notturna improvvisa?
TF: Come tutti, ho passato il primo mese di lockdown praticamente tramortito, quindi non mi sono mosso subito: tutti siamo rimasti in attesa di capire cosa sarebbe successo, se avremmo potuto tornare a lavorare a breve… Poi è diventato chiaro che così non sarebbe stato. Io non ho trovato una via nel teatro in streaming, non riesco a entrare in questa modalità. Alla seconda chiusura, ho passato un nuovo periodo di spaesamento, ma ad un certo punto mi sono guardato intorno e ho dovuto prendere atto della situazione. Per ora, a livello istituzionale, non ci sono piani concreti per la cultura, a differenza di altri paesi. Se la proposta migliore del nostro ministro è quella di immaginare un Netflix del teatro, bisogna giocoforza inventarsi qualcosa. Il teatro è spettacolo “dal vivo”, punto.
LD: Ed ecco allora il Teatro degli Affamati…
TF: L’idea mi è venuta un po’ ispirandomi a ciò che sta succedendo in altre città, un po’ dal mio jogging serale: le uniche persone che vedo in giro sono altre persone che corrono e i rider, chi consegna cibo, un servizio garantito perché imprescindibile. Allora perché non declinarlo verso la cultura? Come si consegna il cibo, sostanza vitale per l’uomo, penso che in questo periodo di aridità artistica sia necessario nutrire anche l’anima. Tanti mi hanno già contattato per fare dei regali di Natale, proprio per offrire una parentesi di benessere alle persone care. Ciò che penso è che il teatro debba e possa essere un momento di sollievo, un segno lenitivo rispetto alle difficoltà e agli stress che stiamo vivendo in questo periodo. Non di svago, attenzione, a quello ci pensa la TV o altri mezzi… Ma un quarto d’ora di nutrimento vero e proprio, una sorta di balsamo dell’anima.
LD: Per offrire un quarto d’ora di ristoro ti metti nei panni del rider. È una delle figure simboliche di questo periodo, che associamo già a vari immaginari: un sistema-lavoro che strozza, un’epoca in cui ci dovremmo proteggere tutti e invece qualcuno sembra sacrificabile. Che ne pensi?
TF: Sicuramente con l’emergenza Coronavirus sono emerse delle figure che possiamo considerare come “eroi del nostro tempo”: accanto al personale medico e paramedico, altre persone lavorano per fornirci servizi indispensabili e certamente questo è da mettere in evidenza. I rider, tra l’altro, non hanno nemmeno la stessa riconoscibilità sociale o economica di chi lavora in ambito medico. Quindi sì, vorrei rendere loro onore. Al tempo stesso mi viene da fare un parallelo: voglio mettere in luce anche le condizioni attuali di chi fa teatro. Siamo senza tutele e senza una progettualità futura, costretti a metterci in gioco con attività del tutto precarie. Io ho dovuto inventarmi qualcosa, perché non so proprio quando potrò riprendere a lavorare.
LD: Hai inventato uno stratagemma per offrire il teatro il modo “altro”. Secondo te il teatro può mantenere almeno questa eredità dell’epoca pandemia? Pensarsi diversamente, soprattutto in spazi altri?
TF: Io ho iniziato a lavorare con Luca Ronconi, uno dei maestri dei non-luoghi teatrali, quindi per me il teatro si esprime molto bene negli spazi non abitudinari: ogni luogo, potenzialmente, può significare teatro. Ma quello che ho voluto fare con il Teatro degli Affamati, più che guardare al futuro per trovare un’alternativa, è stato un ritorno al passato. Sono fermamente convinto che finché c’è una storia e uno spettatore il teatro non potrà morire. È sempre stato così e così sarà. Volevo, appunto, tornare all’essenziale, e cioè all’incontro. Ieri (domenica 6 dicembre, ndr) ho fatto il debutto informale ed è stata un’esperienza veramente appagante, (credo) per entrambe le parti: il semplice fatto di scambiarsi sensazioni dal vivo mancava. È una componente che non può essere trascurata.
LD: Come hai scelto, tra tutti quelli del tuo repertorio, questi testi?
TF: Alcuni sono dei monologhi che porto in scena in spettacoli con Teatro Gioco Vita, con cui collaboro. In generale, a livello tematico, hanno attinenza col cibo: ad esempio, i racconti di Izzo, in cui racconta i sapori tipici della sua terra, Marsiglia. Mi è stata commissionata una consegna di Eduardo e ho scelto il famoso monologo del caffè.
LD: Tu cosa sceglieresti del tuo menù, se fossi uno spettatore/cliente?
TF: Io vengo da una famiglia di ristoratori, quindi chiederei al cuoco: cosa consigli oggi? Tra l’altro, secondo me, quello del ristoratore è un mestiere che si accomuna moltissimo a quello dell’attore, per il senso del sacrificio, lo sforzo, per non parlare della passione e della follia! Ci si ritrova perennemente a reinventarsi e rigenerarsi. E penso che sia una delle grandi risorse di chi fa teatro, oggi.
Chi vuole farsi consegnare uno spettacolo del Teatro degli Affamati può chiamare Tiziano Ferrari al 347.8725150 o scrivergli a [email protected].