I personaggi dei classici, si sa, hanno il pregio di mantenersi attuali da qualsiasi lente li si guardi e calzarne le scarpe regala sempre grandi sorprese, per chi le indossa e per chi li osserva. Don Chisciotte e Sancho Panza sono forse la coppia di avventurieri sfigati più famosa della storia della letteratura e continuano a far parlare di loro: ha debuttato un mese fa al Giffoni Film Festival di Milano, per esempio, “Oltre i giganti”, un cortometraggio di Marco Renda in cui i celebri mulini donchisciotteschi diventano pale eoliche.
Nel “Don Chisciotte” di Stivalaccio Teatro non incontriamo subito il famoso duo. Marco Zoppello e Michele Mori portano in scena Giulio Pasquati e Girolamo Salimberi, due attori che, accusati di eresia, stanno per salire al patibolo e per ritardare la sentenza usano il solo strumento a loro disposizione: la Commedia. Con le loro arti giullaresche, evocano la storia di un’altra coppia di strampalati antieroi: Don Chisciotte e Sancho Panza. Stivalaccio Teatro rimescola con maestria i ritmi e le immagini della commedia dell’arte e – con la scusa di mettere in scena la storia cervantesca – narra l’arte del raccontare storie. Abbiamo intervistato Marco Zoppello, autore e attore in scena.
LD: Ai vostri spettacoli ci si scompiscia dal ridere. Ma ad incarnare questi personaggi improbabili, buffi e combinaguai vi divertite o in qualche modo il loro profilo tragicomico vi commuove?
MZ: C’è da dire di base che la comicità parte sempre dal dramma. In “Don Chisciotte” la vicenda parte da due comici che vengono condannati al patibolo: non potrebbe esistere situazione più tragica. Eppure, da una possibile e probabile tragedia nasce la commedia, nel senso vero del termine, quella che serve allo spettatore a liberarsi dalla paura, attraverso una catarsi. Ci siamo sicuramente affezionati ai nostri alter ego e ai loro alter ego, con i loro momenti di fragilità e malinconia tipici dei buffoni.
LD: “Don Chisciotte” fa parte di una trilogia in cui Pasquati e Salimberi raccontano delle storie, attraverso un viaggio anacronistico tra grandi classici della letteratura (oltre a “Don Chisciotte”, “Romeo e Giulietta” e “Il malato immaginario”). Diventano così cantastorie per antonomasia e potenzialmente potrebbero raccontare qualsiasi storia. Vi interessava di più parlare di loro o dei testi che recitano?
MZ: La famosa questione: è la cornice o il quadro? Spesso la cosa più interessante da osservare è la cornice, e nel nostro caso è proprio così. Si è certamente trattato di capire come raccontare “Don Chisciotte” o “Romeo e Giulietta”, che possibilità di narrazione avessimo. Come dici tu, i due cantastorie potrebbero potenzialmente raccontare qualsiasi storia, ma quelle che abbiamo scelto rimandano proprio alla cornice: l’andamento della nostra compagnia. Giulio e Girolamo raccontano storie per salvarsi la vita, noi per fondare una compagnia e fare breccia nel mercato teatrale. Poi, in “Romeo e Giulietta”, ai due sventurati si aggrega Anna, e alla fine, ne “Il malato immaginario”, c’è un gruppo teatrale consolidato in cui un grande attore “passa” la sua arte alla giovane compagnia. Anche questa è una storia raccontata: quella di Giulio e Girolamo, con le loro vicissitudini, sogni e paure. Una volta terminata, si passa ad altro. Abbiamo continuato con altri progetti, anche molto diversi.
LD: Infatti, oltre a grandi classici della drammaturgia, avete raccontato anche storie contemporanee.
MZ: Sì, abbiamo portato in scena anche testi originali, come “Semi”, che parla di un contemporaneo surreale e grottesco. Oppure un altro testo con cui abbiamo debuttato recentemente, una storia di immigrazione veneta, molto attuale ma potenzialmente applicabile a qualsiasi epoca. Non escludo che si possa tornare ai saltimbanchi. È una forma di bellezza, credo, riuscire ad andare avanti, tornare indietro… Dovunque ci siano cose da osservare, vale la pena farlo. Il testo sull’immigrazione partiva dall’interesse di capire profondamente un territorio, e di conseguenza degli atteggiamenti, delle identità, che poi sono quelle dell’Italia intera. Ma qualunque idea e testo che ponga delle domande va bene, per me che sia Plauto, Brecht o un contemporaneo non fa differenza.
LD: Per te cosa significa fare commedia dell’arte, oggi? C’entrano dei codici, delle partiture specifiche, o semplicemente attenersi a uno spirito dell’arte?
MZ: Sono sempre stato molto diffidente rispetto alla codificazione. Da questo punto di vista mi piace dire che la commedia è come Atlantide: tutti ne parlano ma nessuno l’ha mai vista. In fin dei conti stiamo parlando di qualcosa che ha iniziato a essere formalizzato nel 1947, da Giorgio Strehler, ma lui ha fatto sicuramente scelte arbitrarie. E prima? Se sulla scena non si vede quella cosa che tu chiami spirito, una modalità di interpretazione, puoi avere il canovaccio perfetto, ma stai facendo archeologia, non arte. In più, la commedia è nata come arte popolana, nutrita dalla spontaneità e dal colore delle borgate, dei poveracci: oggi nessun “popolano” ci si dedica, è diventata una disciplina da borghesi.
LD: Quindi hai sviluppato un tuo modo di praticarla.
MZ: Penso che trovare una propria forma di espressione, all’interno di una data arte, sia un processo in continuo mutamento. Quello che facevo cinque anni fa non lo farei adesso. I maestri sono lì per darti una strada, ma poi devi in qualche modo entrarci in conflitto e andare oltre. Il linguaggio del comico cambia con te. Peraltro, io sono terrorizzato dall’idea di avere addosso un’etichetta artistica. Il giorno in cui si parlerà di uno stile “alla Stivalaccio” sarà terribile, vorrà dire che la gabbia si è chiusa. Ferruccio Soleri ha fatto Arlecchino per tutta la vita, raggiungendo un’eccellenza inimitabile, ma a me una prospettiva così sembra un incubo!
LD: “Don Chisciotte” è una pietra miliare, letta, riletta, ripresa, reinterpretata. Voi siete tornati al testo o vi siete lasciati ispirare da altro?
MZ: C’è un grosso lavoro sul testo originale. Ho scelto alcuni capitoli che mi interessavano per il mio svolgimento narrativo, anche rispetto ai personaggi. Per il resto, mi sono ispirato alla commedia e alle sue modalità, al situazionismo che la contraddistingueva. D’altra parte, gli attori dell’epoca facevano così, creavano degli zibaldoni e li arricchivano con l’improvvisazione scenica. Il lavoro, comunque, è molto composito, ci si ritrova di mezzo Ruzzante, Leopardi, Calderón de la Barca… Stranamente c’è sempre l’idea che i comici giochino, e invece c’è spesso dietro un grossissimo lavoro di ricerca.
LD: Il tuo Sancho Panza parla in dialetto vicentino. Come sei arrivato al tuo dialetto, è stato uno strumento naturale o te ne sei riappropriato?
MZ: Non ho mai voluto o dovuto allontanarmi dal mio dialetto. Anche ora, mentre parlo con te, sto passeggiando nei campi di casa mia: sento molto vicino il mio territorio. Trovo un po’ ridicolo mettere in scena il popolo e farlo parlare in perfetta dizione. È uno dei motivi per cui non riesco più a guardare i film stranieri doppiati: magari un film è ambientato nel Bronx e il doppiatore parla da scuola di doppiaggio… Per fortuna in Italia ci si sta accorgendo che ci sono molti lavori di pregio, anche cinematografici, in cui il dialetto è un elemento fondamentale. Purtroppo, però, alcuni critici nazionali temono che intacchi la dimensione intellettuale dell’arte… A me sembra sputare sopra a Pasolini, alla poesia di De André. Per non parlare dei lavori straordinari che stanno facendo al sud Italia: una su tutti, Emma Dante.