Le Opere di misericordia sono state il tema della decima edizione del festival I Teatri del Sacro, nel 2017. Tra le realtà premiate durante quell’edizione appare Controcanto Collettivo (già vincitore del premio Inbox 2017) con l’ultima produzione dal titolo “Settanta volte sette”, un racconto corale che esplora i significati ostici del “perdono delle offese” visti da una doppia angolatura: quella della colpa e quella di chi subisce una perdita. Lo spettacolo, la storia di due famiglie i cui destini si incrociano in una sventurata sera, verrà presentato per la prima volta a Bergamo all’interno della rassegna teatrale deSidera. L’appuntamento è per venerdì 11 settembre presso il TNT – Teatro Nuovo di Treviglio, prenotazioni qui.
Sei attori in scena e una voce fuori campo, dialoghi serrati e realismo: il focus è tutto sulla narrazione incalzante ed emotiva di un omicidio, vista da chi ne subirà le conseguenze per sempre. Clara Sancricca, regista della compagnia, ci racconta come si affronta e si sviluppa un processo creativo che porta sul palcoscenico tematiche tanto complesse.
CD: In che modo connota il vostro lavoro il definirvi un collettivo?
CS: Il gruppo è nato circa dieci anni fa al termine di un laboratorio teatrale condotto da me. Nel 2011 abbiamo deciso di cambiare le condizioni del nostro stare insieme per iniziare a sperimentare, provando a considerarci come una compagnia. Oggi, avere una storia così lunga rende particolarmente piacevole e naturale lavorare insieme. Il mio linguaggio di regista e il linguaggio degli attori sono nati in parallelo, mi sono sperimentata alla regia con i loro saggi di laboratorio, contemporaneamente loro si formavano come attori. L’idea di far nascere un collettivo è stata prima ideologica e poi reale. Ci siamo dati una direzione non solo poetica, ma anche politica, che si traduce nel prendere decisioni tutti insieme, puntiamo sempre all’unanimità ed alla condivisione.
CD: Anche la costruzione degli spettacoli è un lavoro d’insieme?
CS: La regia è mia, ma la drammaturgia, sì, è collettiva. Io, da regista, mi limito a fornire la tematica su cui lavorare, che nasce da un’esigenza spesso personale, c’è poi un tempo lungo mesi in cui lavoriamo, studiamo, parliamo, perché il pensiero possa diventare un’istanza di tutti, in questo modo nessuno subisce la visione di un altro. La costruzione di ogni personaggio presente nei nostri spettacoli nasce molto lentamente, prima lo immaginiamo insieme, poi, quando questa figura esiste, è il processo di improvvisazione a definirne le caratteristiche, strettamente legate alla sensibilità dell’attore stesso.
CD: “Settanta volte sette” si concentra sul concetto di “perdono”, cosa vi ha spinto a voler affrontare questa tematica?
CS: Il titolo fa riferimento ad un episodio del Vangelo, anche se lo spettacolo vuole discostarsi dal pensiero cattolico, pur mantenendo una dimensione in qualche modo spirituale e filosofica. È un tema su cui ho sempre riflettuto molto, quello del perdono. Nella nostra cultura è automaticamente collegato alla religione, ma io sono profondamente laica ed ho voluto costruire un’elaborazione partendo da questa mia posizione. Quando abbiamo iniziato a lavorarci, il clima politico in cui eravamo immersi sembrava aver avuto una virata decisiva verso la vendetta, intesa come “primato morale” in una risoluzione, sostenuta addirittura da una “tifoseria” ideologica. Di conseguenza, l’intenzione è stata quella di fornire una chiave di lettura diversa, legata al concetto di perdono come punto di arrivo – di certo non scontato, né facile – ma intenzionale, dove quella dell’incontro tra le due parti, chi ha subito e chi ha praticato, potesse risultare nuovamente un’opzione considerabile. È stato decisamente un lavoro di scoperta, il perdono raramente è qualcosa di sperimentato nella vita, se non per questioni “banali”.
CD: Ne è d’esempio la vicenda attorno alla quale ruota lo spettacolo, che appare drammaticamente verosimile. Cosa vi ha ispirato nella drammaturgia?
CS: Non è proprio una storia vera, ma si rifà ad una vicenda in cui ci siamo imbattuti quando abbiamo deciso di iniziare a lavorare su questo tema, durante la nostra prima residenza. La cronaca riportava l’episodio di un carabiniere ucciso da un ragazzo, abbiamo fatto più ricerche fino a scoprire che le due donne più coinvolte, la madre del ragazzo che ha ucciso e la moglie del carabiniere, hanno insieme fondato un’associazione attraverso la quale si occupano di percorsi di riconciliazione tra le parti, anche all’interno delle carceri. Abbiamo chiesto di poter incontrare queste due donne e anche, in carcere, il ragazzo che ha commesso il reato. Sono state connessioni dagli effetti potentissimi, che hanno aperto tra noi infinite discussioni durante il processo di costruzione dello spettacolo.
CD: Siete giunti ad una visione comune legata al concetto di perdono?
CS: Naturalmente no, ma pur restando su posizioni parzialmente diverse ci siamo concentrati sulla possibilità umana di un incontro, legato al dialogo e al confronto. Ci siamo trovati immersi nell’ambiente carcerario e questo ha generato in noi diversi spunti di riflessione sui limiti di questa condizione, su cosa significhi perdonare e su quali siano le possibili declinazioni.
CD: In effetti, è un ragionamento che non permette conclusioni, né risposte assolute. Cosa vorreste che restasse al pubblico che vi ascolta?
CS: Non vogliamo dare risposte, al contrario, ci piacerebbe – per lo spazio di quella sera – portare le persone a guardare le cose da una prospettiva diversa. Fornendo una dimensione chiara dei fatti, come una sorta di lente di ingrandimento necessaria a mostrare i dettagli invisibili, nella speranza che, attraverso lo sguardo, possa restare in eredità un pensiero più strutturato. Vorremmo creare un coinvolgimento emotivo come punto di partenza per aprire nuovi ragionamenti legati alla possibilità di perdonare.