“Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta”. A dirlo è Ludwig Wittgenstein nel suo “Tractatus logico-philosophicus”. Una citazione riportata da Silvano Petrosino in un suo libro breve ma denso, “Il desiderio. Non siamo figli delle stelle”, che sarà protagonista della festa per i diciotto anni di deSidera Teatro Festival, il 14 luglio nella Corte del Castello di Cavernago.
La festa si chiamerà appunto “Non siamo figli delle stelle” e vedrà il filosofo dialogare con Bob Messini, pianista e artista poliedrico che qualcuno forse ricorderà in film come “La pazza gioia” di Virzì e “Il cuore altrove” di Pupi Avati (pre 21.15, ingresso gratuito, prenotazione su Eventbrite). La maturità di deSidera verrà celebrata con un’indagine sul desiderio e soprattutto sul significato originario della parola de-siderare, fondamentale per capire che cosa ha voluto fare sino ad oggi il Festival condotto da Gabriele Allevi e Luca Doninelli.
All’inizio del suo libretto Petrosino lo spiega chiaramente: “il verbo latino «desiderare» deriva dal composto latino della particella de – che può indicare una mancanza o un’azione distruttiva – con il termine sidus, sideris, che significa «stella»”. Se pensiamo che gli antichi congiungevano le stelle in schemi di costellazioni per orientarsi sia a livello geografico che esistenziale (l’astrologia, oggi espugnata dall’astronomia) è facile comprendere il doppio significato della parola deSidera: il “sentimento di una «mancanza» di costellazioni, cioè di punti di orientamento” oppure “«de-costellare» nel senso del tentativo di distruggere (de- come nel caso di «de-costruire») la costellazione che imprigiona, come un destino, la mia esistenza attuale”, ossia la vita di tutti i giorni che ci può imbrigliare.
Petrosino continua la sua riflessione analizzando il secondo significato del desiderare come «de-costellare». Lo confronta con il “bisogno” della “nuda vita” (bisogno di mangiare, di riprodursi) per poi inserire queste due parole fondative dell’umano nel contemporaneo, dove il “bisogno” mondano ha sostituito il “desiderio” oltre le stelle. Di tutti gli oggetti, a partire dalle cose essenziali, l’uomo subisce quella fascinazione fantasmatica che confonde il desiderio con il bisogno e genera quell’ossessione di desiderare ancora dopo l’esaudimento di un desiderio. Il non averne mai abbastanza e dunque ricominciare a desiderare e acquistare ancora. Ovvero ciò che più semplicemente chiamiamo consumismo, l’atto spasmodico di riempire il nostro vuoto interiore: “non tolleriamo più quel fondo di assenza su cui le generazioni svolgevano la loro vita. Nella nostra cultura non c’è più posto per la parte mancante”.
Questo secondo significato oltre-mondano, che potremmo anche rappresentare come la capacità di andare oltre le stelle, è proprio ciò che hanno fatto quelli di deSidera nei diciotto anni di teatro diffuso in tutto il territorio bergamasco: un’indagine, o meglio un carotaggio verticale dalla terra al cielo ma pure dal cielo alla terra, di quello che chiamiamo sacro. Il sacro è per definizione il separato, ciò che è altro e altrove rispetto alla condizione umana. Da essa distante eppure alla fine profondamente interconnessa, necessaria, inevitabile. Il sacro, ricollegandoci a Wittgenstein, è là dove non ci sono le parole, ma solo l’irrazionale, la follia, la violenza, lo sconcertante. L’indifferenziato dentro cui risiede in modo misterioso il significato del nostro stare al mondo.
deSidera ha risposto a questa mancanza di parole con le parole del teatro. Con le storie dolorose, gioiose, avvincenti portate in scena da tanti artisti che hanno dato il loro contributo a questa ricerca collettiva e individuale di significato. Ogni spettacolo è stato il tentativo di dare non una risposta definitiva ma una direzione per una ricerca che coinvolge tutti, credenti e non credenti. Il desiderio di andare oltre le stelle ci abita, è ciò che ci differenzia da tutto il resto del vivente e anche chi non crede si pone quelle domande fondative che fanno l’uomo.
Citando Lacan, Petrosino scrive che là dove non ci sono le parole sorge “uno stupefacente esercizio di nominazione; è infatti proprio il desiderio, che è «di niente di nominabile», a essere all’origine degli infiniti nomi che affollano la scena umana. È nella misura in cui l’uomo è abitato da questo «niente di nominabile» ch’egli non si arresta più nel nominare, fantasticare, elucubrare, eccetera”. Dal punto di vista del teatro, questo “nominare, fantastica, elucubrare” può essere riassunto con raccontare. Raccontare vicende umane perché chiunque possa rispecchiarsi in esse e trovare un medicamento a quell’inquietudine che il desiderio oltre le stelle ci lascia.
Alla luce di tutto ciò, il lavoro fatto in questi anni da deSidera – sempre meno “confessionale” e sempre più improntato al sacro, come ci ha spiegato Allevi nella chiacchierata di pochi giorni fa – è prezioso. La società del consumo spinge sempre di più affinché il desiderio che rimane al di qua delle stelle riguardi il denaro, il bancomat, l’acquisto. L’infinito possedere. “Il soggetto fa di tutto per auto-convincersi che l’inquietudine che lo attanaglia sia da ricondurre alla sola e semplice soddisfazione ch’egli incontra nel mondo del bisogno”. deSidera invece ricorda a tutti noi che c’è una “mancanza” interiore, un vuoto di senso, su cui affacciarsi. Cioè guardare le stelle e oltre per “non dimenticare quella mancanza che, sebbene sia indimenticabile, è tuttavia al tempo stesso anche continuamente tradita”. E tradirla significa tradire il nostro essere uomini, protagonisti di storie sopra e sotto il palco per «decostellare».