Interno senza mobili. Luce grigiastra.
In questo ambiente senza tempo, una stanza-rifugio post-atomico dove i giorni sembrano sempre uguali a se stessi, si svolge “Finale di partita”, uno dei capolavori del drammaturgo irlandese Samuel Beckett (premio Nobel per la Letteratura del 1969), spettacolo di Teatro dell’Assurdo, testo significativo del Novecento.
Scritto nel 1956, andò in scena in francese in prima mondiale al Royal Court di Londra nell’aprile del 1957 insieme all’atto unico “Atto senza parole”. E poi, nello stesso mese e con la stessa Compagnia, a Parigi allo Studio des Champs-Élisées.
In Italia fu messo in scena per la prima volta da Andrea Camilleri nel 1958.
Clov: Non posso star seduto.
Hamm: Già. E io non posso stare in piedi.
Clov: Così è.
Hamm: A ciascuno la sua specialità (Pausa). Non ridi?
Clov (dopo aver riflettuto): Non ci tengo.
Un atto unico con protagonisti Hamm, un anziano signore cieco e paralizzato su una sedia a rotelle, e il suo servitore Clov, incapace di sedersi. Hamm e Clov, uno l’opposto dell’altro, complementari ma ostili, che si tormentano a vicenda, ma che per sopravvivere hanno bisogno quasi ferocemente l’uno dell’altro (Hamm: Perché non mi ammazzi? Clov: Non conosco la combinazione della dispensa).
A loro si aggiungono i genitori di Hamm, il padre Nagg e la madre Nell: senza gambe e chiusi in due contenitori per la spazzatura.
Personaggi che appaiono come unici superstiti, che trascorrono i loro ultimi giorni ormai senza speranza muovendosi come in una sorta di partita a scacchi (il botta e risposta tra Hamm e Clov appare come una mossa e contromossa).
Il titolo dell’opera e il suo contenuto, d’altronde, richiamano proprio il gioco degli scacchi, come lo stesso Beckett ha dichiarato. Il “finale di partita” indica la terza e ultima parte dell’incontro: pochi pezzi sulla scacchiera oltre ai due re. Un pezzo che in questa fase diventa molto attivo, fondamentale sia nell’attacco che nella difesa.
“Hamm è il re in questa partita a scacchi persa fin dall’inizio – spiegò Beckett – Nel finale fa delle mosse senza senso che soltanto un cattivo giocatore farebbe. Un bravo giocatore avrebbe già rinunciato da tempo. Sta soltanto cercando di rinviare la fine inevitabile”.
Un personaggio continuamente messo sotto scacco dagli altri personaggi insomma, primo tra tutti Clov.
I due protagonisti saranno dal 4 al 7 dicembre alle 21 al Teatro Sociale, inaugurando così la stagione di prosa presso il teatro di Città Alta, con l’interpretazione del grande attore Glauco Mauri, ora ottantanovenne, che torna nella Bergamasca con Roberto Sturno, Marcella Favilla e Marco Blanchi, per la regia di Andrea Baracco.
“Non c’è niente di più comico dell’infelicità” Beckett fa dire a Nell, mentre sta dialogando (con tratti anche di tenerezza) con Nagg, ognuno dal proprio bidone (situazione che impedisce loro di darsi un “bacetto”).
Scherno? Cinismo? Complessità dell’esistenza umana?
“Io ho sempre considerato Beckett non uno scrittore del teatro dell’assurdo, ma un grande poeta della difficoltà del vivere dell’uomo” ha detto Mauri.
Un autore che descrive la vita nei suoi aspetti positivi, negati ed anche illogici. “Finale di Partita” parla della condizione umana segnata dalla sofferenza e dall’assurdità dell’essere, dei limiti e delle possibilità della libertà individuale, della fine e della solitudine di ciascuno di fronte al mondo. È una riflessione sull’individualità, sull’esistere, sulla precarietà.
Hamm: Non può darsi che noi... che noi... si abbia un qualche significato?
Clov: Un significato! Noi un significato! (Breve risata) Ah, questa è buona!
Un testo che, secondo Mauri, richiede agli interpreti una grande umanità: “Anni fa con Roberto Sturno decidemmo di portare sulla scena “Finale di partita”. Abbiamo cominciato a provare con grande entusiasmo, ma poi ci siamo arresi. Ci siamo sentiti immaturi e forse non pronti per affrontare un così poetico, tragico e farsesco aspetto della vita. La tragedia del vivere che diventa farsa, la farsa del vivere che diventa tragedia. Un ossimoro dove convivono una risata e un arido pianto, una disperazione senza speranza e un insopprimibile sentimento di pietà per l’uomo”.
“Parlare di Beckett significa parlare dell’insensatezza della condizione umana, della insondabilità dell’universo e dell’umano, del tentativo di esprimere l’inesprimibile, insomma di molti grandi temi (anche se lo stesso autore mette in guardia: “il mio lavoro è questione di suoni fondamentali, se qualcuno vuole farsi venire il mal di testa con i significati reconditi, faccia pure. E si prepari un’aspirina”), ma più di tutto significa parlare di teatro, di personaggi che si fissano nella memoria, vivi e palpitanti” spiega il regista Andrea Baracco.
In una lettera all’attrice Giulia Lazzarini prima del debutto nel 1982 di “Giorni Felici”, altro testo di Beckett, Giorgio Strehler scriveva che “Il teatro è la parabola del mondo”. Forse è per questo che si ripete il rito di assistere agli spettacoli, dai greci ai contemporanei: lì, sul palco, il pubblico si riflette, trova l’uomo, nella sua complessità, nelle sue emozioni e nelle sue domande. Trova la vita indagata nelle sue sfaccettature.