Dopo quasi tre decenni e circa ottomila commenti quotidiani su Repubblica, Michele Serra apre allo spettatore la sua bottega di scrittura. Sabato 1 febbraio sarà al Creberg Teatro alle 21 (biglietti da 27 a 32 euro, ancora disponibili) con il monologo “L’amaca di domani – considerazioni in pubblico alla presenza di una mucca”. Ci ha raccontato della sua assenza sui social, di pentimenti, classi sociali (che esistono ancora) e gente offesa senza che lui ne capisca il motivo.
MM: Da quel che ho capito, sul palco lei legge e una mucca ascolta. Ci racconta cos’è “L’amaca di domani”?
MS: La mucca più che ascoltare presenzia e serve a fare memoria del silenzio a me e al pubblico. Il mio è un monologo sulla parola e di quanto sia faticosa ma indispensabile. La mucca rappresenta la confortevole alternativa del silenzio.
MM: Si è fatto un’idea di chi è il pubblico che viene a vederla?
MS: In buona parte sono i miei lettori, la comunità che da ventotto anni legge il mio corsivo quotidiano. Ma se fossero tutti miei amici ne sarei un po’ deluso. Una delle cose più affascinanti del teatro è che è un incontro sempre differente con gente sempre differente. Per giunta col vantaggio, grazie al buio, di non vedere chi c’è in sala.
MM: In questi anni c’è stato un cambiamento antropologico enorme. Com’è fare l’opinionista in un mondo dove tutti, quotidianamente, sui social, danno la loro opinione?
MS: È molto importante, quando si scrive, fare un attimo di silenzio e creare un luogo protetto, di solitudine. Se dovessi tenere conto dei social sarei rovinato. Non per snobismo, ma per necessità: ho un disperato bisogno di autonomia, anche dal punto di vista formale. Ho sempre cercato di scrivere in modo un po’ letterario, mi conforta, rileggendo le vecchie Amache, ritrovare una certa unità stilistica. Scrivo sempre nella stessa maniera e il pubblico lo riconosce.
MM: Un tempo si diceva: i fatti separati dalle opinioni. Adesso pare ci siano solo opinioni, e che i fatti siano fake news. Cosa ne pensa, da opinionista di professione?
MS: Ormai tutti hanno un’opinione su tutto. Io mi prendo in giro e rifletto in modo critico sul rischio di diventare uno sputasentenze. Facendolo per mestiere, ho imparato un controllo della materia che – forse – chi scrive sui social non ha. È la forma quella che conta. Un milione di persone può essere dalla parte degli ultimi, ma non tutti sono Fabrizio De André. Lui era lui perché esprimeva questo sentimento comune, volendo anche dozzinale, in un modo unico. Io mi permetto il lusso di farlo perché dedico parecchio tempo della mia giornata alla scrittura.
MM: Un’opinione, in sé, non conta nulla?
MS: Chi mi legge non lo fa perché sono interista o di sinistra, ma per come scrivo. Non ne ho alcun dubbio. La forma è tutto: lo si impara da grandi, da giovani si dà più importanza all’energia, all’entusiasmo, ai sentimenti. Chi parla male vive male, come dice Nanni Moretti, e le parole definiscono chi le usa.
MM: Non essere sui social è una forma di privilegio. Le capita mai di sbirciarli in incognito?
MS: Molti sono gli scrittori che sono fuori dai social, è un istinto naturale a preservare le parole. Sarebbe come per un artigiano aprire le porte un tornado le porte della propria bottega. È una forma di cautela e igiene professionale. Dopodiché anche un boscaiolo o un ingegnere possono scegliere di non essere sui social. Bisogna imparare a usarli senza essere usati. Evviva Facebook se mi serve a incontrare i vecchi compagni di scuola, ma se è necessario per dimostrare che si esiste diventa una patologia.
MM: Il recente caso di quella scuola di Roma che fa distinzioni di censo, indicando dove vanno i figli dei ricchi e dove quelli dei poveri, mi ha ricordato la polemica furibonda per una sua Amaca di qualche anno fa dove – puntando il dito sul classismo della scuola – l’hanno accusata di essere classista. Alla fine i fatti le hanno dato ragione.
MS: Anche io ho sorriso quando ho letto la notizia e volevo quasi tornare sopra sulla questione, ma poi ho preferito evitare. Che la scuola sia classista lo diceva già don Milani. Non è cambiato molto da allora: nel mio liceo classico di Milano ci sono i figli dei miei compagni di scuola, questo penalizza i poveri ed è un problema. Dalla polemica sulla mia Amaca sono contento che sia nato un bello scambio di lettere con gli studenti di una scuola professionale ligure. Ho detto ai ragazzi quello che avevo già scritto, e cioè che sono più svantaggiati rispetto ai figli dei ricchi.
MM: Oggi parlare di classi sociali è un tabù?
MS: Ai miei tempi era di sinistra dire che ci sono le classi sociali, mentre era di destra – e ipocrita – negarlo. Un tempo la società era più facilmente catalogabile. Ora è più difficile da leggere, ma eccome se esistono le differenze di classe. È meno facile esplicitarlo perché tutto è più confuso e si può essere fraintesi. Se dico che il popolo ha bisogno di cultura qualcuno sicuramente se la prenderà perché gli sto dando dell’ignorante.
MM: Si parla spesso, a proposito o meno, di analfabetismo funzionale. La responsabilità di farsi capire è sempre di chi scrive oppure alle elementari bisognerebbe esercitarsi di più nella comprensione del testo scritto?
MS: Le due cose, bisogna venirsi incontro. Scrivere bene per esibizionismo è sbagliato e detestabile, un errore di vanità in cui capita di cadere. Scrivere semplice per sciatteria o per prendere una scorciatoia non si può fare. Ricorderò sempre un caporedattore conosciuto a vent’anni che mi disse che ci sono cose sulle quali è complicato scrivere perché sono complicate. Per questo mi sono piaciute le Sardine, che vogliono sottrarsi alla semplificazione del discorso politico. Mi sono quasi commosso, la cultura è proprio accorgersi pian piano che le cose sono difficili, che siamo ignoranti e che non sappiamo abbastanza. Non è retorica, è vero. C’è un bisogno di umiltà da parte di tutti, sia chi scrive, sia chi legge.
MM: Al momento della discesa in piazza della Sardine mi è sembrato molto entusiasta di questo movimento. Ha cambiato idea?
MS: No, hanno resistito eroicamente alla pressione mediatica. Hanno fatto presente che la politica è fatta dai corpi delle persone, che bisogna uscire dalle camere chiuse dei social. Chi cavalca la semplificazione è Salvini, quindi è ovvio che le sardine siano anti salviniane. Secondo me quello che dovevano fare lo hanno già fatto, possono anche chiuderla qua.
MM: Le faccio la stessa domanda che ho fatto pochi giorni fa a Sergio Staino, quali sono i limiti della satira?
MS: Ci sono sicuramente, ma non possono essere stabiliti per legge. Non ci può essere un trattato che lo spieghi. Uno fa, scrive e disegna e poi prende atto di ciò che succede. Bisogna cercare di caprie che libertà illimitata non è di questo mondo. Quando dirigevo “Cuore” mi è capitato tante volte di essere querelato e attaccato per cose che non avrei immaginato, mentre altro che ritenevo più rischioso e polemico passasse nel silenzio. Di molti autori satirici non mi piace la pretesa di impunità: il linguaggio è sempre un rischio e una responsabilità. È difficile capire perché si offendono le persone.
MM: Non ci si offende un po’ troppo spesso oggi?
MS: Rimango sempre sorpreso dagli offesi. L’umanità è fatta di sensibilità molto varie e si cammina sulle uova. Bisognerebbe essere abbastanza maturi da sopportare il conflitto. La permalosità è legata alla fragilità delle persone. Chi si impermalisce ha spesso l’ego gonfio ed è facile a bucherellarlo con uno spillo. Meglio essere forti e tolleranti, sopportare entro certi limiti. Poi c’è la legge.
MM: In questi giorni, non da parte sua, abbiamo assistito a una complessiva riabilitazione di Craxi. C’è anche chi, da sinistra, facendo il confronto con Salvini, rimpiange quasi Berlusconi. Insomma, non c’è limite a quello che un elettore di sinistra è costretto a ingoiare?
MS: Il livello della classe politica è in flessione ma questo vuol dire che lo è anche il livello della società. Il Palazzo è espressione della gente, quindi sì: c’è un momento di mediocrità. Chi alza i toni lo fa perché è mediocre. Non è un momento felice per la nostra società, dobbiamo trovare parametri nuovi per fare qualche passetto in avanti. Riguardo a Craxi, la questione giudiziaria ha fatto ombra a quella politica. Dal segretario del Psi non mi sarei aspettato che diventasse la quintessenza degli anni Ottanta, del rampantismo, del liberismo. Pensavo che la sinistra fosse una cosa differente. Ha lasciato Berlinguer da solo a fronteggiare l’epoca. Con il suo moralismo e il richiamo all’austerità, il messaggio di Berlinguer mi sembra ora più attuale di quello craxiano. Purtroppo una delle ricadute di Mani Pulite è che la questione giudiziaria ha conquistato la scena della politica.
MM: Le capita, magari a distanza di tempo, di ripensare a un’Amaca e pentirsene?
MS: Certo, in 28 anni ci mancherebbe. Quando è uscito “Il grande libro delle Amache”, rileggendomi avevo paura di essere stato inutilmente feroce. In realtà sono pochi i casi in cui ho pensato di essere stato troppo cattivo o poco caritatevole. Ho fatto parecchie ripetizioni, quello sì, ma ognuno ha i suoi chiodi fissi. Ne ho fatte diverse contro gli ultras di calcio. Mi sono contraddetto abbastanza poco. Ho corso il rischio della monotonia più dell’incoerenza.