Primo di una trilogia che riguarda anche le figure della madre e del figlio, “Il nome del padre” è un monologo interamente scritto e diretto da Mario Perrotta. Il punto di partenza è lo stravolgimento della figura del padre.
Il testo è nato da un intenso confronto con lo psicanalista Massimo Recalcati, che alle relazioni familiari ha dedicato gran parte del suo lavoro: “Il nostro tempo è il tempo del tramonto dei padri – scrive lo psicanalista nelle note allo spettacolo – Ogni esercizio dell’autorità è vissuto con sospetto e bandito come sopruso ingiustificato. La rappresentazione patriarcale che li voleva come bussole infallibili nel guidare la vita dei figli o come bastoni pesanti per raddrizzarne la spina dorsale si è esaurito irreversibilmente. Il nostro tempo è il tempo dell’evaporazione del padre e di tutti i suoi simboli”.
Uno spettacolo nato anche da un’urgenza: “Sei anni fa sono diventato padre e mio figlio mi costringe a domande quotidiane”, racconta l’attore. Essere padre mette con le spalle al muro, riempie il quotidiano di nuove sfide e preoccupazioni. Allora Perrotta, attraverso la ricerca drammaturgica, la scrittura, la messa in scena e l’interpretazione, porta sul palco – e inchioda – padri sbagliati “che potrei essere, ma che vorrei evitare di essere usando tutta l’ironia e il sarcasmo che posso per esorcizzare queste mie paure”.
In scena tre padri diversissimi tra loro per estrazione sociale, provenienza geografica, condizione lavorativa. Differenti ma ugualmente uniti nella difficoltà a parlare con i figli e reagire al loro silenzio: “Nonostante questa diversità, sono tutti e tre uomini nudi, spersi di fronte ai loro tre figli adolescenti, due ragazzi e una ragazza. Non sanno comunicare, parlare con loro. Abitano nello stesso condominio, quindi si osservano e si invidiano pensando che quell’altro viva una situazione idilliaca col proprio figlio e ignorano che invece non è così: sono tutti e tre in piena crisi perché non hanno saputo trovare la via di comunicazione. Sono assenti e questo è il dato di contemporaneità, che mi ha evidenziato anche Recalcati nelle lunghe chiacchierate fatte insieme sull’argomento”.
L’assenza è una parola chiave: “Attraverso questi padri si comprende che non conta quanti soldi hai, quanta cultura hai, quale lingua parli, dove vivi o hai vissuto: conta l’essere presenti con il cuore e anche con il senso di responsabilità che dovrebbe portare a dire quei no che fanno bene ai figli. Invece l’assenza è una assenza di responsabilità, per cui i no non arrivano, ed anche un’assenza emotiva, per cui per un figlio diventi essenzialmente un bancomat”.
Come siamo arrivati a queste figure? “Andando molto indietro nella storia, dal dopoguerra, si sono succedute sempre più generazioni che per compensare le carenze portate dalla guerra hanno cominciato a concedere tutto, tanto è vero che siamo arrivati agli anni Settanta in cui si è terrorizzata a livello scientifico l’esigenza che i bambini fossero liberi di fare quello che volevano”, continua Perrotta. “E invece non è esattamente così. Non è neanche com’era prima, con la famiglia patriarcale del papà autoritario. I figli hanno bisogno dei tuoi no, del senso del limite, ma anche dal tuo affetto, del tuo cuore. Prima i padri si imponevano con i soli no, usando la cinghia e non c’era il cuore. Adesso non ci sono i no, quindi sono cresciuti degli eterni Peter Pan di 40/50 anni che si vestono e si comportano come i figli adolescenti. Così abbiamo sottratto ai figli la possibilità di contrastarci perché non ci prendiamo la responsabilità di un no. Probabilmente è stato questo a creare una figura simile: un allungare sempre di più l’età anagrafica in cui tu smetti di essere figlio. Ci stiamo avvicinando al sine die: si resta figli anche a sessant’anni, campando con la pensione del padre ottantacinquenne e si va avanti così”.
E quindi, come deve essere un padre? “In questo senso sposo perfettamente l’idea di Massimo Recalcati. Un esempio letterario perfetto è il padre del romanzo ‘La strada’ di Cormac McCarthy, che è diventato anche un ottimo film: in un mondo post catastrofe in cui la gente è diventata cannibale perché non sa cosa altro mangiare e non c’è più nulla da desiderare, c’è un padre con il figlio tredicenne che continua a insegnare la forza esistenziale dell’ostinarsi a vivere nonostante tutto. Quindi il padre ideale è quello che testimonia con il suo agire, e non con le parole, questa forza esistenziale che però è fatta anche dei famosi no. Ecco, questo dovrebbe essere il compito paterno che è una funzione, come quella materna. Non è detto, infatti, debba essere svolta dal corrispondente genere. Il ruolo paterno può svolgerlo il padre, il professore o un libro come dice Recalcati”.
Sotto i riflettori, ci sono invece un padre operaio veneto che avrebbe voluto fare il chitarrista: classifica figura padre-figlio che sa di essere padre, ma non ci riesce e finisce con il caricare il figlio di fragilità e insicurezze. La seconda figura è un proprietario di diversi negozi d’alta moda napoletano: un padre-amico, che si comporta come un adolescente con la figlia, uscendoci perfino insieme a ballare la sera. Infine c’è un giornalista siciliano, che ricorda la figura paterna di vecchio stampo con le regole, con un figlio hikikomori: una situazione in cui la cultura non conta nulla, ma conta il cuore.
“Sono un mix tra le mie osservazioni quotidiane e ciò che Recalcati mi ha raccontato: ha estratto dei quadri ‘patologici’ di padri contemporanei, dei ritratti che nella realtà non sono così perché hanno confini più sfumati, mescolati tra loro. Di sei, ne ho scelti tre e poi li ho mixati con i padri che conosco io: dentro ci sono persone che ho frequentato e frequento nella vita, così come momenti di alcuni casi che Massimo ha trattato e anche altre influenze, come quelle letterarie”.
A differenziare i padri anche le cadenze e il dialetto, elemento che caratterizza diversi lavori di Perrotta (tra cui il bellissimo “Militeignoto” in cui tutti i dialetti italiani sono uniti e mescolati in una lingua d’invenzione): “Ho sempre costruito il mio teatro sul veicolare emozioni. Non è l’unico modo, ma il mio guarda all’aspetto emozionale e ho sempre creduto che il dialetto fosse la grammatica delle proprie emozioni: quando vogliamo esprime o viviamo un’emozione forte, usiamo la lingua della terra madre, della famiglia. Per me i dialetti d’Italia sono le grammatiche emozionali del Paese. Per un attore, poi, è una situazione funambolica: non è solo lingua, ma anche atteggiamenti diversi, modi di pensare differenti”.
Anche le “domande” sembrano muovere la ricerca teatrale e la produzione di Perrotta: “Mi lascio agitare dalle cose che nella mia vita ritengo calde, cruciali. Non è una ricerca razionale: scrivo teatro quando c’è un’urgenza per scrivere, altrimenti non scrivo. Le urgenze nascono dalle domande. Ad esempio, in Italia abbiamo un’idea museale di memoria, come qualcosa che deve essere conservato. Invece la memoria è quella che consente all’artigiano di ricordarsi come si fa il mobile che ancora deve nascere o un violino che deve ancora essere costruito: quindi avere memoria significa avere gli strumenti per costruire il futuro, altrimenti non ne abbiamo uno. E a me interessano i giorni a venire, quelli che devo vivere”.