Il Teatro Donizetti è chiuso per restauro da tre stagioni, ma in questi anni i nuovi abbonamenti si sono moltiplicati, numerosi spettacoli hanno registrato il tutto esaurito e anche la prosa 2019-20 stava andando benissimo tra Teatro Sociale e Creberg. Poi è arrivata la pandemia e tutto si è congelato. Luci spente, sipari chiusi e i lavoratori dello spettacolo fermi. La magia del buio in sala è diventata da qualche mese solo buio.
Maria Grazia Panigada dal 2015 è direttrice artistica del Teatro Donizetti e del Teatro Sociale di Bergamo per il settore prosa e consulente artistico degli eventi organizzati dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Bergamo. Lei in questo buio non ha mai visto venir meno una luce, cioè la comunità teatrale. Il portone del Sociale lungo la Corsarola sarà chiuso ancora per qualche tempo, ma resta simbolicamente “Aperto ai ricordi”, una campagna social che invita pubblico, attori e professionisti a condividere i momenti più intensi vissuti nei teatri cittadini, con foto, video o qualche riga scritta.
“Un progetto nato da una riflessione su cosa potesse avere senso fare dopo l’esplosione della pandemia – racconta Maria Grazia Panigada – Il teatro è un luogo di incontro e tutto andava sospeso, ma noi restiamo comunque una comunità teatrale, fatta di attori, artisti, pubblico, organizzatori, maschere e maestranze. L’idea è stata mettere tutti sullo stesso piano, mostrando quanto l’esperienza del teatro fosse un momento prezioso per ognuno. Se per lo spettatore l’emozione è il sipario che si apre, per la maestranza lo è il filo di luce che illumina il palcoscenico”.
SV: Per te che da anni sei impegnata al Donizetti i ricordi saranno moltissimi, ma qual è il primo in assoluto?
GP: Un “Riccardo III” di Shakespeare. La mia prima volta al Donizetti con la scuola a 14 anni. Era uno spettacolo molto difficile, non ci avevano preparato, sapevo solo che a un certo punto avrebbero detto: “Il mio regno per un cavallo!”. Fui affascinata dalla messa in scena, ma non capii niente. Penso che la mia idea dell’importanza della formazione con gli studenti arrivi da lì. L’incontro con il teatro va lasciato all’emozione, ma bisogna anche acquisire la capacità di leggerlo. Con i ragazzi lavoriamo anche su fonica e illuminotecnica e nulla toglie loro la magia, anzi, conoscendo gli ingredienti aumenta la capacità di stupore.
SV: Dal passato al futuro: come sarebbe bello ricominciare?
GP: Un passo alla volta. Per ora siamo in una fase in cui coltiviamo il desiderio e questo è un po’ il significato di un’altra iniziativa in arrivo, “FTD Offstage – Dialoghi in streaming”, una serie di appuntamenti online in cui ospiteremo degli artisti che speriamo presto tornino ad abitare il nostro teatro: l’attore Alessio Boni e il musicista rock Omar Pedrini saranno i primi ospiti dell’iniziativa, con un dialogo sullo spettacolo ‘66/’67 (giovedì 28 maggio ore 18.30 in diretta sul canale Facebook della Fondazione, ndr).
SV: Come state ragionando sulla riapertura in questo periodo di incertezza?
GP: Ad oggi non sappiamo bene quando e a che condizioni potremo riaprire, ma stiamo ragionando anche sul recupero di alcuni spettacoli della stagione 19-20, per sostenere le compagnie più piccole di Altri Percorsi, duramente penalizzate dalla situazione.
SV: Come è stato il dialogo in questi mesi di chiusura tra gli addetti ai lavori?
GP: La parola umanità riassume la reazione di tutti quelli che si sono dovuti fermare, sia a Bergamo, sia fuori. C’è stato un grande clima di vicinanza, ma la solidarietà vera la fai riprogrammando, non con la poesia: per tutti quelli che lavorano a chiamata – e nel nostro settore sono tanti – il momento è ancora più difficile e per molti sarà segnante, ma sono convinta che saranno il teatro, l’arte e il patrimonio culturale a cui dovremo tutti aggrapparci per ritrovare un’appartenenza di comunità.
SV: Qual è la tua posizione nel dibattito sulla cultura che si è sviluppato in seguito all’esplosione della pandemia?
GP: La prima cosa che ho pensato è che ci fosse un gran bisogno di silenzio e di fermarsi. L’idea dei ricordi è uscita un po’ alla volta, con molto pudore. È stato bello che molto si spostasse online tenendoci vicini, ho apprezzato la possibilità di vedere spettacoli di qualità anche su Rai 5, però per me le piattaforme di cui ha tanto parlato il Governo sono solo uno strumento d’emergenza, non una soluzione. Dobbiamo tornare al nostro vero mestiere, alla presenza fisica.
SV: Da cosa si ricomincia quindi?
GP: In primo luogo penso sia essenziale percepirci come una risorsa per farlo percepire anche agli altri: è sulla nostra esperienza che si giocherà il fatto di non avere paura e di mettere in campo le possibilità per studiare come valorizzare la cultura materiale e immateriale lavorando in sinergia. Ci salveremo solo insieme, può sembrare retorico, ma è proprio ciò che penso.
SV: Da sempre nel tuo metodo di lavoro c’è una grande attenzione alla messa in rete delle realtà del territorio e nel decentramento dell’esperienza teatrale, aprendosi ai quartieri ad esempio.
GP: Ho sempre creduto tantissimo nei progetti di rete e nella collaborazione, siamo arrivati a coinvolgere anche 60 o 70 associazioni: il territorio bergamasco in questo senso è vivacissimo e si sono costruite moltissime relazioni di stima e reciprocità. Sarà ancora più importante questa estate lavorare così, portando il teatro verso le persone, sfruttando anche le potenzialità degli spazi aperti e abbracciando l’intera città.
SV: Da qualche settimana un gruppo di artisti teatrali locali ha lanciato Bergamo Lazzaretto Teatro, “una proposta-manifesto per il non abbandono dell’arte, per il germe della rinascita e del senso di appartenenza alla comunità”.
GP: Ci siamo incontrati una prima volta nei giorni scorsi, ci sta ragionando il Comune e lo stiamo facendo anche noi come Fondazione, c’è un grande clima di attesa. Questo progetto può avere grandi potenzialità per ospitare eventi, diventando un importante riferimento in questo periodo.
SV: E per il futuro quali scenari si stanno disegnando?
GP: Come stagione di prosa siamo una realtà molto fortunata a livello nazionale, in tantissimi ci seguono, abbiamo fatto serate da 1500 persone e tutto esaurito e anche in una situazione data per perdente, come la chiusura prolungata del Donizetti, abbiamo registrato 400 abbonati in più dello scorso anno, superando i numeri di quando il teatro era attivo. Sto sentendo molte realtà italiane che non apriranno finché non saranno certe di poterlo fare in piena capienza. La nostra forza è il grande seguito che abbiamo, ma con il distanziamento non sappiamo cosa accadrà e la Fondazione non può lavorare in perdita. Possiamo solo aspettare.
SV: C’è un altro futuro, rappresentato dai giovani con cui ogni anno lavorate. Anche quell’attività al momento è in sospeso...
GP: Con gli studenti delle superiori portiamo avanti molti progetti: quest’anno stavamo lavorando sulla macchina teatrale in Shakespeare e sulla prima partigiana d’Italia con l’Isrec e l’Anpi che riprenderemo. Poi c’è un’alternanza scuola-lavoro, che speriamo di riportare al più presto dal vivo, dopo un periodo online. Vogliamo riattivare anche la nostra scuola di formazione, una grande sfida vinta: al Teatro Stabile di Torino dei 27 candidati selezionati su 400, 2 hanno studiato con noi, un altro è entrato alla scuola del Piccolo di Milano, dove si sono presentati in 600. Inoltre il lavoro con fonici e illuminotecnici per molti ragazzi ha aperto la via alle prime esperienze professionali nelle sale del territorio. L’importanza della formazione riflette il valore primario dell’impegno etico che il teatro ha nei confronti della città.
SV: Chiudiamo con le speranze?
GP: Oggi più che mai abbiamo bisogno di spettacoli necessari, che parlino a noi e di noi: il teatro ci può traghettare un po’ fuori da questo buio. La speranza è di tornare presto a vedere cose piccole come il portone del Sociale che si apre alle persone, spiare dal retropalco se la gente sta arrivando e poi godersi le chiacchiere del dopo spettacolo. La vita insomma, quella è la nostra vita.