Attrice, sceneggiatrice ed autrice televisiva. Dalla bottega di Firenze, scuola teatrale di Vittorio Gassman, alla compagnia Teatro settimo diretta da Gabriele Vacis, per dedicarsi poi, da diversi anni, alla produzione dei propri spettacoli. Da gennaio 2016 è direttrice artistica del Nuovo teatro Faraggiana di Novara. La sua brillante carriera rende Lucilla Giagnoni una delle attrici di riferimento nel panorama italiano, che ritorna ospite al festival Molte Fedi sotto lo stesso cielo venerdì 23 ottobre alle ore 21, con “Conversazioni notturne attorno al Magnificat”.
Lo spettacolo verrà trasmesso in streaming sul sito della rassegna e sarà visibile solo a chi sottoscriverà la card Molte Fedi 2020, accedendo all’area personale. “Abitare l’incertezza, ripensare il futuro” è il titolo della XIII edizione del Festival che vede coinvolte per la sezione teatrale, oltre a Giagnoni, anche Lella Costa e Laura Curino. Un trio tutto al femminile incaricato di dare corpo e voce a donne coraggiose.
CD: Tre spettacoli, tre donne. Come si inserisce il tuo lavoro e cosa puoi svelarci?
LG: In questa edizione il Festival ha scelto di affrontare il tema della resilienza femminile, argomento centrale nel mio “Magnificat”. Nella nuova versione creata ad hoc per Molte Fedi, ho deciso di riprendere le parti salienti, quelle che ritengo cruciali, per raccontarne il “retro del tappeto”, ovvero come sono arrivata a prendere certe decisioni drammaturgiche ed artistiche, svelando cosa volevo dire. Una specie di conversazione/conferenza attorno allo spettacolo. Il titolo, poi, è un omaggio a “Conversazioni notturne a Gerusalemme” di Cardinal Martini, personaggio che stimo moltissimo e con il quale condivido l’amore per il salmo Magnificat.
CD: Quindi come è nata la drammaturgia?
LG: È l’ultimo lavoro che ho scritto ed è quello che sto portando in scena attualmente, nonostante tutte le difficoltà. Un testo spesso nasce perché l’artista ha dei bisogni interiori da risolvere e l’opera in quel momento diviene l’unica possibilità di elaborare le difficoltà, il dramma, che ogni nuova circostanza apre. Gli spettacoli sono la risposta creativa ad un’urgenza esistenziale. Per creare è necessario alzare la testa dagli obblighi quotidiani ed entrare in risonanza con quello che il mondo intorno ci comunica. Gli artisti un po’ per natura, un po’ per bisogno, hanno questa capacità. “Magnificat” è stato scritto nel 2018 e ha debuttato 2019, è incredibile che parli proprio del virus e della potenza della vita. È nato come bisogno di far riemergere una forza vitale racchiusa nella natura, quindi dentro di noi. Io ne parlo anche con leggerezza attraverso il mito, la fiaba, il gioco.
CD: La chiami forza femminile.
LG: Il femminile è in tutto, non solo nelle donne. Compare negli uomini, nelle pietre, in ogni cosa. È un’energia attrattiva e una forza relazionale che mette insieme, che connette. Tutto ciò che ha questo tipo di natura, di movimento, di azione, io la definirei femminile. Inteso come matrice distinta dalla forza maschile, che opera sulle cose e si manifesta nel fare. La forza del femminile è collettiva, resiliente, accogliente. Non c’è un male, sono entrambe necessarie come positivo e negativo. Il vero problema è che abbiamo fatto prevalere il maschile in tutta la storia conosciuta umana e ciò ha condizionato la nostra visione del mondo, producendo l’azione prevaricante di una forza sull’altra. Essendo nato dopo il mio spettacolo “Furiosamente”, focalizzato sulla potenza del maschile, “Magnificat” è il compimento di un percorso volto ad esplorare ciò che sta nascosto, questa energia femminile che emerge continuamente sotto vari aspetti. Di fatto, il mondo attende un rovesciamento dei valori: nel momento in cui il femminile verrà ricollocato nel giusto rapporto armonico, allora il mondo sarà in equilibrio.
CD: Dunque è un ritorno ai valori ancestrali?
LG: Magnificat parla del virus, non in quanto tale, ma della disabitudine ad aver cura di noi stessi e della natura che ci circonda. Rendere grande ciò che è piccolo, per esempio nell’atteggiamento della cura. Oggi questo compito è strettamente affidato alle donne, madri, mogli, ma anche badanti, quando invece la cura dovrebbe essere il primo valore della società tutta. Non la conquista, ma la cura insieme alla conquista. Il Salmo del Magnificat è politico nel suo richiamo alla terra. Noi esseri umani siamo in relazione intima con la terra, siamo fatti di terra, ne siamo parte, ma non siamo possessori, semmai le apparteniamo. L’umiltà e la relazione armonica fra noi e la terra è il nodo, come San Francesco cantava nel suo Cantico delle creature.
CD: Come hai vissuto il periodo di lockdown?
LG: Non bene, ho sofferto e mi sono sentita immersa in un clima surreale. L’11 Settembre del 2001 avevo scritto di una donna decisa ad alzare i muri di cinta del suo giardino per isolarsi dal resto del mondo e passare una notte oscura dentro se stessa, facendosi accompagnare da Dante, fino ad uscirne poi rinata l’indomani. Quando nei mesi scorsi è stata imposta la chiusura, mi sono sentita io stessa la donna che avevo descritto anni prima ed ho deciso di affidarmi nuovamente a Dante. Ogni giorno all’ora del vespro leggevo dal teatro Faraggiana un canto della Divina Commedia, senza commenti. All’inizio pensavo che questa ritualità sarebbe durata una decina di giorni, invece, sono passata dall’Inferno, al Purgatorio, al Paradiso, fino alla lettura dell’ultimo canto il 14 giugno, giorno prima della riapertura dei teatri. Il mio lockdown si è svolto nell’interpretazione dei versi della Divina Commedia. Ora sento di aver stabilito una connessione totale con Dante, come se lo conoscessi, tanto è stato autentico il lavoro di immedesimazione. So di essere l’unica persona al mondo ad averlo fatto in questo modo e mi rivendico di essere una donna. Tutte le parole della Divina Commedia sono passate attraverso il mio respiro, la mia voce, il mio sangue.
CD: Cosa ne pensi del nuovo binomio teatro-streaming?
LG: Sicuramente è una nuova strada, anche i miei vespri danteschi erano pensati per superare la griglia del filtro della telecamera, però se questo deve diventare la sostituzione dello spettacolo dal vivo, che invece ha tutt’altra funzionalità, allora non è pensabile. Il rischio è di perdere una dimensione sociale importantissima e complessa che è quella della condivisione gomito a gomito. Neanche la compresenza, nella dimensione della scacchiera contingentata degli spettatori, restituisce quello che era sentire il respiro gli altri. Lo streaming non potrà mai sostituire la dimensione di partecipazione e di crescita collettiva del teatro.