Difficile non conoscere Lella Costa, all’anagrafe Gabriella, classe 1952. Attrice, scrittrice e doppiatrice tra le più seguite del panorama italiano. Interprete dall’umorismo intelligente, attivista appassionata e voce inconfondibile. A partire dal suo esordio nei primi anni ottanta, intraprende una carriera inarrestabile che supera il palcoscenico, attraversando tutte le dimensioni del fare spettacolo, dalla radio, al cinema, alla tv, fino ad affermarsi come figura amata sia dal pubblico, che dalla critica. Non solo artista eclettica, ma anche donna impegnata in cause sociali e storica sostenitrice di Emergency.
Quello tra l’autrice e la rassegna organizzata da Acli Bergamo è un rapporto longevo, che la vede anche quest’anno ospite, per l’undicesima edizione consecutiva. Lella Costa incontrerà il pubblico affezionato di Molte Fedi sotto lo stesso cielo venerdì 25 settembre alle ore 21, presentando “Edith Stein, una ragazza troppo intelligente”, reading tratto dal suo ultimo saggio “Ciò che possiamo fare”, ed. Solferino. Lo spettacolo verrà trasmesso in streaming sul sito della rassegna (link in fondo all’articolo): sarà visibile sottoscrivendo la card Molte Fedi 2020 e accedendo all’area personale.
Un’edizione insolita quella 2020, che si svolge interamente attraverso gli schermi, definita dagli organizzatori “una sfida affrontata con entusiasmo”. Se è vero che lo streaming rompe lo schema fondamentale delle performance dal vivo, quello scambio immediato tra palco e platea, la diffusione online viene descritta dal direttore della rassegna Daniele Rocchetti come un’occasione per ampliare la partecipazione. “In mare aperto. Abitare l’incertezza, ripensare il futuro” è il titolo della XIII edizione del Festival culturale di Molte Fedi che vede coinvolte, per la sezione teatrale, tre attrici: Lella Costa, Lucilla Giagnoni e Laura Curino. Un trio tutto al femminile incaricato di dare corpo e voce a donne coraggiose.
CD: Andiamo per ordine. Il tuo saggio inizia con alcune riflessioni legate al mare, luogo che ti rappresenta, ma che non si addice alla figura di Edith, più legata alle montagne del nord. C’è qualcosa di metaforico?
LC: Bisogna innanzitutto considerare che Edith Stein è nata a Breslavia, dove il mare più vicino è il Baltico, non certo di clima mite. Credo però che la questione geografica diventi anche culturale in ognuno di noi. Sebbene il paesaggio montano non mi appartenga, posso capire che lei ci abbia trovato uno stimolo all’introspezione, al ragionamento, alla purezza. Il mare è spettinato e la sua pericolosità sta nell’essere imprevedibile. La montagna ha dei confini, magari inaccessibili, ostici, ma Edith era una donna sempre impegnata al superamento e in questo, la scalata, si fa metafora perfetta.
CD: Cosa ti ha convinto ad accettare di scriverne?
LC: Lì per lì mi è parsa una proposta per certi versi indecente, tanto era inaspettata e inaudita. Poi ho compreso l’entità della sfida che la casa editrice mi stava proponendo: far incontrare la storia complessa di una filosofa dal vissuto intenso con il mio modo di raccontare. Personalmente, ho colto l’opportunità di rimettermi a studiare, è una cosa che non capita tanto spesso in questa fase della vita. L’ho fatto davvero con passione, non ho improvvisato, mi ci sono dedicata.
CD: A proposito di dedizione, a cosa allude “Ciò che possiamo fare”?
LC: A fare sempre il massimo con quel che ci viene dato. È questo il motore che ha spinto Edith per tutta la sua vita: “consentitemi di fare il meglio che posso”. Non si tratta soltanto di un messaggio, ma anche di una richiesta, come a dire: “cerchiamo di non vanificare i talenti e tutte le energie spese per realizzare”. Valeva allora e vale anche oggi riguardo ai saperi delle donne che vengono ancora umiliati, disconosciuti, messi in secondo piano. Oltre che essere ingiusto, è autolesionista. Le discriminazioni sono un male per il mondo, non un dispetto al genere femminile.
CD: Nel saggio ti sei chiesta se abbia senso definire Edith Stein “femminista”.
LC: Forse non secondo il concetto di “femminismo” per come lo concepiamo oggi. Sicuramente si è molto occupata del pensiero femminile, non soltanto per essere stata danneggiata e discriminata in quanto donna, ma perché davvero aveva a cuore dignità e diritti. Certo, l’ha fatto mantenendo la concezione cattolica cristiana della donna con che si realizza come moglie e come madre, cosa che lei però non è mai stata, sposando così in pieno la contraddizione tipica delle donne del Novecento. In questo trovo la libertà: una donna che sceglie sempre per sé. È la sua stessa esperienza a rendere Edith Stein tra le donne più importanti della sua epoca, al di là della componente specificamente filosofica e religiosa. A noi lascia una lezione di assunzione di responsabilità, di profondità, di capacità di farsi carico della complessità della vita e del lavoro. Senza dimenticare che stiamo parlando di una straordinaria filosofa e pensatrice. È un peccato che ancora oggi non sia sufficientemente valorizzata. Penso che, se su quella cattedra ci fosse stata lei al posto del collega Heidegger, qualcosa in Europa sarebbe andato diversamente.
CD: Tedesca cresciuta in una famiglia ebrea osservante, convertita al cattolicesimo assumendo il nome di suor Teresa Benedetta dalla Croce, santificata e nominata patrona d’Europa. Cosa rappresenta la sua figura per il nostro continente?
LC: Sicuramente la consapevolezza che siamo tutti parte di una storia. Se fossimo sempre consci di quello che c’è stato prima, magari sarebbe più individuabile ciò che è davvero importante, per occuparsene in prima persona, sentendosi parte di una società, dandone valore e favorendone la crescita. Trovo inoltre che, nella scelta dei sei patroni d’Europa, tre donne e tre uomini, la Chiesa abbia fornito una straordinaria possibile composizione delle anime.
CD: Cito Stein: “Tutti gli esseri umani hanno una guerra da affrontare”.
LC: La sua vita è stata è stata davvero una guerra costante, a partire dalle sue posizioni atee in contrapposizione con la religiosità dalla famiglia, passando dal maestro che in qualche modo l’ha tradita e abbandonata, per poi finire contro il fato, il destino, la politica, la storia infame che non guarda in faccia a nessuno. Ha lottato persino contro un papato che secondo lei non stava facendo abbastanza per porre argine alla vergogna ed all’inaudita violenza nazista. È stata decisamente una combattente.
CD: Cosa si prova a tornare sul palcoscenico dopo il lockdown e in questa fase ancora critica?
LC: Il primo palco dopo l’isolamento è stato in piazza maggiore Bologna con “la Repubblica delle idee”, un ricordo a quarant’anni dalla strage di Bologna. Non una narrazione leggera, dopo tutto il carico emotivo dell’ultimo periodo, ma è ancora e sempre una grande emozione. Oggi è il primo giorno di autunno (l’intervista è stata fatta il 22 settembre, ndr) e io sono qui, a Bergamo. Mi piace pensare che si chiuda in questo modo “l’estate del nostro scontento”, o meglio, del nostro smarrimento.