Sabato 22 febbraio 2020 non potevo immaginare che sarebbe stato il mio ultimo giorno di lavoro. Ho condotto un corso di drammaturgia al Teatro Prova, la compagnia in cui lavoro da 30 anni e di cui sono direttore artistico, ci siamo divertiti e appassionati esplorando i modi più efficaci per raccontare le relazioni umane su un palcoscenico in cui devono agire, parlare e vivere persone vere.
Ci siamo salutati dandoci appuntamento alla prossima volta.
Nessuno poteva immaginare che questa prossima volta non ci sarebbe stata.
L’interruzione improvvisa e brusca ci ha lasciato inermi: teatro chiuso, lavoro interrotto, fine degli incontri e delle relazioni. Non più strette di mani o baci e abbracci. Ognuno confinato nella propria abitazione impreparato ad affrontare una nuova realtà: vivere con sé stessi.
Io sono un uomo fortunato perché sono a casa con mia moglie e i miei due figli, uno di cinque e l’altro di nove anni. Da un giorno all’altro siamo diventati una famiglia senza più impegni: prove, corsi, lezioni, scuola calcio, il karate, i compiti, portare a scuola i bambini, andare a prenderli, stasera esco, domani devo alzarmi presto… tutto scomparso. Di colpo ci siamo svegliati senza il suono della sveglia, ci siamo ritrovati a condividere lo stesso spazio e lo stesso tempo, cosa che accade solo durante le vacanze. Bello! Finalmente stiamo insieme!
Ma questa non è una vacanza. È un’emergenza sanitaria. È una pandemia. È il lockdown. Si può uscire solo per motivi di necessità.
Parole nuove, mai usate prima, sono entrate nel “lessico famigliare”.
Possiamo fare la spesa, l’abbiamo sempre fatta, ma ora c’è la consapevolezza che è una fortuna; abbiamo una casa, è una fortuna; siamo una famiglia unita, un’altra fortuna. Abbiamo tutti i generi di prima necessità e anche di più.
E allora da dove viene questa inquietudine che con il tempo ci ha reso un po’ nervosi o svogliati, che ora ci fa dormire agitati, che ci fa girare per casa alla ricerca di qualcosa da fare? E intanto nel mondo fuori dalla finestra cosa succede? Si sentono sirene di ambulanze, i mezzi d’informazione parlano di morti. E la morte sfiora molti che conosciamo.
Deflagra improvvisa la necessità di tutti, forse non primaria ma essenziale sì, di arte e cultura: i social si riempiono di consigli di lettura, poesie, romanzi, fiabe, concerti in una stanza, foto, quadri, film. E ci si accorge che la cultura, in tutte le sue forme, è un potente motore che ci dà la forza per continuare. La cultura c’è sempre stata, è sempre stata lì per noi, anche e soprattutto per quelli che la ignorano. Non si può vivere senza, qualcuno l’ha scoperto.
Poi accade che un po’ tutto questo ci sta annoiando e allora si litiga, si discute, si fa il pane in casa, facciamo la torta, quando finirà? Non è noia: l’arte in questi tempi di quarantena ci sta mettendo di fronte a noi stessi, come dice Amleto l’arte “regge lo specchio alla natura”. Ci siamo visti forse per la prima volta, abbiamo toccato la nostra impotenza, la nostra frustrazione. Non è noia. Anche l’intrattenimento che dovrebbe, in teoria, farci dimenticare la realtà in cui viviamo, che dovrebbe alleggerire il nostro animo, in fondo fa l’esatto contrario, ci illude con un’evasione divertente e poi ci rimette davanti allo specchio.
La cultura e l’arte ci ricordano impietosamente che quello che ci manca in quarantena non è il pane, la torta, la canzone o il libro: ci mancano i luoghi in cui arte e cultura si esprimono: teatri, musei, biblioteche, e con questi sentiamo intimamente la mancanza degli altri. Quegli altri con cui condividere o discutere, con i quali essere in totale disaccordo o da abbracciare. La quarantena ci ha tolto il contatto reale con le persone che provano la nostra stessa inquietudine, nel profondo di noi stessi ci sentiamo in un vicolo cieco ora che gli altri sono un’immagine poco definita su uno schermo con una voce alterata o gracchiante.
Nella nostra compagnia abbiamo basato gran parte del nostro lavoro proprio su questa condivisione, sull’incontro con gli altri, e questa mancanza diventa per noi impietosa e dolorosa. Ci sentiamo fermi, e non solo perché non c’è la possibilità di lavorare, ma perché non ci sono gli altri. Come molti anch’io continuo a mantenere i contatti online con i miei colleghi, e i nostri attori e i nostri docenti si stanno inventando mille modi per rimanere in relazione con con gli allievi della nostra scuola di teatro, con i bambini come con gli adulti. Si fa tutto questo non per fare teatro, ma perché sappiamo che sono i progetti e le speranze degli altri a nutrire gli esseri umani e i professionisti che siamo, o che cerchiamo di essere.
Teatro Prova nasce a Bergamo nel 1983. Si occupa di produzione di spettacoli teatrali per un pubblico di bambini, famiglie, giovani e adulti, distribuiti a livello regionale e nazionale; formazione con la “Scuola per Attore” e i Corsi teatrali; e programmazione, gestendo dal 1987 il Teatro San Giorgio.