«In questi giorni di smania, in cui non so chi sono, di dove vengo, dove vado e che si aspetta (o non si aspetta) da me. Sono come una belva in gabbia. I libri volano contro le pareti, le carte si trascinano per terra, ci faccio giocare il gatto»
- Cristina Campo, Lettere a Mita -
Raccontare della mia quarantena è questione poco rilevante, sia dal punto di vista della produttività sia da quello della creatività. L’incertezza del tempo e della durata di questa emergenza mi hanno tolto l’istinto vitale della progettazione. Le evasioni, concesse da libri e musica, si sono scontrate con la limitatezza dei muri di casa. Questo senso claustrofobico, esistenziale e immaginifico, mi fa rimandare tutte le mie attività.
L’unico conforto è quello di sentirmi parte di una Storia, quella di tanti uomini e di tante donne che anche prima di me si sono trovati a dover far fronte a questa condizione. Un fardello alleggerito che mi fa procedere, giorno dopo giorno, verso una serenità fiduciosa. Oltre ai dolorosi lutti. Oltre alle più comuni tensioni domestiche, stemperate da una risata o da un sorriso. Oltre alle relazioni umane da riformulare e ripensare. Oltre a tutto ciò, non ho potuto evitare di interrogarmi sullo stato dell’Arte e sul ruolo che questa deve ricoprire nella ricostruzione sociale del nostro Paese, delle nostre Città, dei nostri quartieri.
La proliferazione del virus ha svelato, con brutalità impietosa, le fragilità del Sistema-Arte che da tempo paga il conto di una diffusa umiliazione. Allo stesso tempo però, come tutte le crisi, ha posto tutti i suoi interpreti davanti alla Storia. Un appuntamento che non può essere rimandato e dal quale è auspicabile che se ne esca rinnovati, ognuno per le proprie peculiarità e competenze.
La crisi, quindi, potrà essere rovesciata in opportunità? La sofferenza dei lutti risponde un afflitto «NO», ma la dolorosa speranza strappa un vitale «SÌ».
Ma da cosa è necessario partire per un ripensamento radicale? Qual è il primo passo? È difficile rispondere, ma credo che, come per l’edificazione di una solida casa, si debba partire da una questione fondamentale: a che cosa servono le Arti?
Il Sistema-Arte vuol dire fare politica. Un’azione politica che crea legami, che fa ri-sorgere le comunità, che educa e che eleva l’umanità alla verità.
Rigenerarsi in favore di una riscoperta radicale della funzione politica delle Arti richiede il superamento di quella che si chiama autoreferenzialità.
A tal riguardo ripenso allo spirito con il quale, in una Milano post-bellica, Grassi e Strehler posero le basi di una progettazione culturale fondata sui principi del pubblico servizio.
Riscoprire l’utilità pubblica delle Arti, e in senso più ampio della Cultura, chiede un nuovo approccio alle Istituzioni Pubbliche che devono fornire risposte strutturali, strumenti economici e luoghi adeguati.
Tutti noi siamo chiamati a non mancare l’appuntamento con la Storia, ponendo al centro la Bellezza della Cultura e dello Spettacolo quale strumento di rigenerazione sociale e civile.
Gli artisti e gli operatori culturali, in tutto questo, non devono perdere il loro referente primario: il pubblico. La scommessa più grande, insieme a quella di un radicale ripensamento del Sistema-Arte, è quella di riportare la gente all’interno dei Musei, dei Teatri e dei luoghi deputati. Non esistono alternative, scorciatoie ingannevoli. La pratica di questi mesi di trasferire sulle piattaforme un’azione scenica, una mostra o un concerto ha spostato in un non-luogo ciò che richiede la fisicità dei corpi, delle tele, dei suoni.
Continuare in questa direzione è nocivo per tutti: pubblico, artisti e operatori; scelte radicali ci attendono!
Per rinascere, sono necessari slanci di creatività che non devono arenarsi nell’ autoreferenzialità, nella conservazione e nella retorica.
Un affettuoso arrivederci.
Luca Loglio è il Direttore artistico di Fondazione “Benedetto Ravasio”.