In questo periodo, a proposito della condizione delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo, mi sembra torni insistentemente il tema dell’invisibilità.
È vero, non poter fare spettacoli, laboratori, non poter incontrare gli altri ci impedisce di fatto di fare il nostro mestiere. E ci rende invisibili.
Ma, l’invisibilità ci rende anche inesistenti?
Personalmente è una vita che combatto contro l’invisibilità. O meglio contro il potere dell’invisibilità di rendermi inesistente. Sono una donna, una lesbica, una grande ustionata, una teatrante di provincia (dei poveri) e sono di sinistra. Come diceva una mia ex amica “Non è un momento facile per gente come me”.
Ma che cosa vuol dire essere inesistenti?
Non credo significhi non poter fare delle cose o di tanto in tanto ricevere un riconoscimento.
Credo piuttosto che significhi che le cose che facciamo contino poco.
Che la nostra voce non abbia davvero peso.
Che il filo che conduce il nostro lavoro resti slegato dal mondo.
Lasciato a sé, innominato.
Le donne spariscono tutte le volte che usiamo il maschile, il neutro universale, per riferirci agli esseri umani.
Le lesbiche non esistono tutte le volte che diamo per scontato che le relazioni siano eterosessuali.
Allora se la pensiamo in questo modo noi come teatranti siamo invisibili da sempre.
Se le nostre parole contassero, il giornale della città scriverebbe puntualmente di quello che proponiamo, entrando nel merito dei contenuti.
Se le nostre parole contassero, avrebbero più risorse istituzionali e meglio distribuite.
E ancora, la gente smetterebbe di fare la classica domanda: sì, ma di lavoro tu cosa fai?
Il fatto è che noi non siamo una voce.
E sapere di non essere una voce, ci contagia dall’interno.
Plasma il nostro modo di pensare.
Lavora come un martello sul nostro senso d’impotenza.
Il dispositivo ci insegna che non dobbiamo cercare dentro, ma guardare fuori.
Pensiamo quanto a noi teatranti e operatori culturali siamo affezionati al genio.
Sempre in cerca dell’Unto da Signore che cambierà la storia del teatro.
Nel 2020 ci emozioniamo ancora parlando dei ‘Padri’ del teatro.
Consumiamo i nostri riti all’interno di paradigmi patriarcali ottocenteschi, senza renderci minimamente conto dei contenuti che stiamo mobilitando.
Non ci accorgiamo che il mondo sta cambiando, che andiamo verso una convergenza di temi e modalità molteplici che seppellirà questo modo di pensare.
Perché questo modo di pensare è quello di Trump.
Mentre il teatro è il tempio della creatività collettiva.
Ora questa crisi mette il dito nella piaga.
Ci costringe a vedere se siamo davvero inesistenti o se invece di là del dispositivo che ci vuole muti, noi si è capaci di dire delle cose.
Ci costringe a guardare a quei noiosi dei nostri colleghi e colleghe e a pensare che forse è meglio per una volta organizzarsi, fare qualcosa insieme.
Ci fa guardare allo specchio: ma quanti siamo?
Spacca i vetri di cristallo delle istituzioni.
Crea comunicazioni trasversali.
Ci vengono chiesti articoli di giornale.
Firme su petizioni.
Pareri.
Vuoi vedere che forse la nostra voce conta?
Qualcuno, sia in alto che in basso ci prova.
Si mescola.
Si reinventa, cerca modi.
Qualcuno no. Tiene serrate le mascelle. Resta ancorato alla logica del suo piccolo, nella convinzione che poi tutto tornerà come prima.
Come durante la Resistenza, la riserva affettiva che può essere spesa a vantaggio del bene comune è bagaglio personale di ciascuno ed è insindacabile.
Ecco io, guardando ora quello che sta succedendo a Bergamo, penso che qualcosa si stia muovendo. E penso che anche il nostro mondo, come il nostro territorio, fosse intossicato e irrigidito.
Poi non so se ce la faremo con gli stipendi, i mutui, gli affitti e sono molto preoccupata.
Però so che più esistiamo come categoria nell’immaginario della cittadinanza e delle istituzioni, più facciamo emergere il valore economico del nostro lavoro.
Più alimentiamo la logica del racconto di noi come collettività più riusciamo a fare passare che le risorse devono essere equamente distribuite.
Più apriamo i nostri contenuti a una convergenza di temi contemporanei, più favoriamo il decadere di logiche di potere malsane anche al nostro interno.
Più ci mettiamo in rete, più siamo potenti.
E quindi visibili.
Come post scriptum poi mi vien da dire: dai, anche solo come tentativo antropologico, proviamoci, per una volta, a diventare tutti femministe.
Carmen Pellegrinelli è autrice, regista e dottoranda in Scienze Sociali all’Università di Lapland (Finlandia).
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