Quando, ormai molti anni fa, lessi “Moby Dick” di Herman Melville venni preso da una voglia insaziabile di pesce crudo, cotto, fritto. Per “La ballata del vecchio marinaio” di Samuel Taylor Coleridge invece mi invase una sensazione di umidità marina e torbida. Due accadimenti sensoriali che chiarificano il carattere assolutamente esperienziale di due libri fondamentali della letteratura occidentale. Prima di ogni significato infatti un libro, quando è un grande libro, obbliga il lettore fra le altre cose al suo lato immaginativo, alla sua capacità immersiva. E solo poi lo conduce verso significati che inevitabilmente ritracciano le traiettorie delle nostre vite.
Dico tutto questo perché esperienziale sarà la versione teatrale de “La ballata del vecchio marinaio” messa in scena da Damiano Grasselli di Teatro Caverna. Accadrà giovedì 9 luglio per Lazzaretto on stage (inizio 21.30, biglietti su vivaticket.com), la rassegna organizzata dal Comune di Bergamo all’interno del calendario di iniziative “Torniamo in scena. Estate duemila[e]venti”. Uno spettacolo già presentato dall’attore bergamasco, ma qui riproposto in una nuova versione.
La scelta del testo del grande poeta romantico inglese non è casuale dopo quanto accaduto negli ultimi mesi: “Coleridge racconta una storia meravigliosa e tragica – spiega Damiano – un uomo attraversa il dolore e la sofferenza, fino a rinascere in una vita più ‘triste e più saggia’. Mi pare che sia una metafora di tante cose accadute in questi mesi e che succederanno nei prossimi. Non mi piacciono i testi troppo espliciti: soprattutto in poesia c’è bisogno di un volo alto, che guardi da prospettive diverse. La metafora di Coleridge, remota nel tempo, legge bene la nostra situazione proprio perché da sempre l’uomo soffre, si interroga e porta sulle spalle un peso”.
Al centro dello spettacolo la voce, come si legge sulla presentazione della pièce, dove il Marinaio tornerà a navigare, a perdersi e a ritrovarsi attraverso la traduzione sferzante di Beppe Fenoglio: “un uccello, la tempesta, serpenti marini, la luna con stelle damine: le immagini prendono vita nelle parole di Coleridge. Suonarle (non dirle, non narrarle, ma suonarle) significa essere partecipi alla creazione di quella vita”. Nella trasposizione teatrale diventa, secondo il Caverna, “un classico della letteratura in un concerto per voce”.
Un approccio non nuovo, ma fortemente performativo, intrigante e appunto esperienziale: “Credo che la voce sia l’espressione attraverso la quale l’uomo cerca nell’altro una comprensione. Parlare quindi di concerto per voce, significa vivere, attraverso il suono della voce, la parola, non cercando una verità fissa ed immutabile ma una possibilità: quella di stare con l’altro. È l’ambito di ricerca in cui Teatro Caverna si muove: che cosa è il suono? Questa penso sia la domanda eterna della storia dell’umanità... Il testo di Coleridge è eterno: non c’è bisogno di attualizzarlo. Parla, come i grandi miti, dell’uomo: serve solo suonare con quelle parole”.
Nella “Ballata” Coleridge impasta realtà e immaginazione, soprannaturale e leggenda, narrazione di viaggio e gotico. Bagna tutto con l’acqua di un mare torbido e insidioso, scrivendo un poema sul Male, sulla colpa e la redenzione. Questa mescolanza di generi viene indicata dalla compagnia per un pubblico dai 9 anni in su. Cosa può dire ai bambini un testo come questo? “Suggerisce di godersela. Di non cercare il senso di tutto. I bambini non lo cercano, ma cercano ciò che in teatro (ormai raramente) accade: un incontro. I serpenti marini nelle loro orecchie sono un gioco. La ‘luna cornuta’ di Coleridge li farà ridere. Le voci li trasportano, quasi ipnotizzati, in un mondo lontano. Ai bambini piace questo aspetto del teatro; poi diventiamo ‘grandi’ ed imponiamo a tutti la dittatura del capire, della storia, dell’affermazione. Il bambino se ne fa nulla, vuole godere il momento che vive”.
È sempre interessante andare a indagare com’è stata la prima volta con questi testi baluardo, perché è lì che iniziano ad irradiare una mutazione esistenziale: “Avevo 27-28 anni, ero già adulto. Ad una prima lettura capii poco o nulla: cercavo, appunto, la storia. Poi ho lasciato andare le briglie: l’ho letto ad alta voce, un pomeriggio d’estate con 40 gradi in un teatro deserto. Le immagini hanno cominciato a nascere da sole. Ancora oggi, sentendolo, ci sono immagini nuove che si creano. Questo testo è una delle più straordinarie ed oniriche riflessioni sulla vita umana”.
Una riflessione che passa da un animale potente e misterioso come l’albatros, il volatile con l’apertura alata più grande di tutti. Il marinaio lo accoglie come buon presagio mentre la nave, dopo una tempesta impetuosa, rimane bloccata nei ghiacci del Polo Sud. Ma poi, inspiegabilmente, secondo un atto di puro male, il marinaio lo uccide, firmando così la sua maledizione. A quel punto è costretto dai compagni d’avventura a portare appeso al collo l’uccello, simbolo delle sventure che da lì in poi gli capiteranno.
“La figura dell’albatro è misteriosa. Appare tra la nebbia. Gioca quasi come un bambino. E poi viene abbattuto, innocente, e il suo cadavere diventa il simbolo della colpa, secondo la massa... Mi pare l’albatro sia molte cose: la conoscenza, di cui sappiamo così poco. L’imprevedibilità della vita, che tanto ci spaventa. Ma, anche, il fuoco, la luce che, come fu per Icaro, ci attrae: qualcosa di irraggiungibile. Questo mistero ci spaventa a tal punto che quando pare volgersi a nostro favore ne rimaniamo così accecati da abbatterlo. L’albatro è la materia sensibile della vita: tocca a noi farci i conti o puntare la freccia ed eliminarla”.
Tuttavia dopo diverse traversie – fra cui la perturbante apparizione della Vita e della Vita-in-morte che si giocano la sorte dell’uomo – sopraggiunge una possibilità di redenzione: è il mare, precisamente il Pacifico (“il mare più centrale del mondo” a detta di Melville), che gli mostra la visione di serpenti marini con le loro scie di luce rilasciate nell’acqua. È una manifestazione di bellezza: il marinaio la accoglie secondo una via salvifica che passa attraverso l’amore. Vedi alla voce “la bellezza salverà il mondo”. O forse no: “Amo molto Dostojevskij, ma non so se la bellezza possa salvare il mondo, soprattutto se ci limitiamo all’equazione bellezza uguale ciò che piace a me. La bellezza non è un piatto di patatine fritte su cui spuntare un pollice blu. La bellezza è ciò che eleva, interroga, sconvolge, abbranca e scaraventa in un altro luogo. La bellezza è tante cose: se riusciamo a vedere questa molteplicità, allora la bellezza può agire sul mondo: forse non salvarlo. Ma renderlo più accettabile. Vivo”.
E a proposito di bellezza, Damiano è stato uno dei partecipanti a La cultura in quarantena. La campagna di Eppen che ha voluto raccogliere le testimonianze e le riflessioni dei lavoratori del mondo dello spettacolo durante lo stop dovuto al lockdown: “Sono stati mesi complicati per il mondo dell’arte, per teatro e musica in particolare. Ma il peggio deve ancora arrivare: lo verificheremo nei prossimi mesi quali sono le tracce lasciate sul sentiero”.
Aleggia anche qui un’idea di cambiamento: “Se tutto tornerà come prima sarà un disastro. Se si inseguiranno nuove mode per compiacere il pubblico o, peggio ancora, portare a casa la pagnotta, allora sarà un cataclisma. Uso parole forti perché, senza una riflessione sulla vita, l’uomo è biologicamente ed eticamente destinato alla morte. Se, nell’intimità della propria stanzetta, qualche artista tornerà a farsi domande, a fare domande attraverso la propria opera... se la smetteremo di dare risposte consolatorie e populiste (quanto populismo nell’arte di oggi!)... Beh, forse allora il segno rimasto può essere germe”.
“Egli va come quello che è stordito / ed è dai sensi abbandonato: / un uomo più triste e più saggio / si levò il mattino dopo” scrisse Coleridge a chiusura dell’epopea del Vecchio marinaio. Chissà che non sia di buon auspicio per chi deve decidere delle sorti della cultura del Paese. E per tutti gli albatros da tenere in vita.
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