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Johann Trollmann, il pugile sinti che prese a pugni il regime nazista

Intervista. Pandemonium Teatro porta in scena, sabato 25 gennaio al Teatro degli Storti di Alzano Lombardo, la storia di Trollman, detto Rukeli, un uomo che lottò sul ring e contro le discriminazioni razziali. In un periodo storico segnato dall’intolleranza, Rukeli scelse di non lasciare la Germania: un simbolo di resistenza e determinazione che ancora oggi ha molto da insegnarci

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Sabato 25 gennaio, alle 21, il Teatro degli Storti di Alzano Lombardo ospiterà lo spettacolo «Via da lì» di Pandemonium Teatro. La straordinaria storia di Johann Trollmann, detto Rukeli, il pugile sinti che negli anni Trenta conquistò il titolo di campione tedesco dei pesi mediomassimi.

Johann Trollmann ha dovuto lottare non solo sul ring, ma anche contro le discriminazioni razziali e politiche imposte dal regime nazista. Nato a Wilsche, nella Bassa Sassonia, nel 1907, soprannominato Rukeli (che significa albero in lingua sinti) per i ricci scuri e il fisico prestante, si fece cucire sui pantaloncini il soprannome Gipsy, attribuitogli proprio per la sua etnia. Perseguitato dal regime nazista, gli fu revocato il titolo dei mediomassimi e, deportato a Neuengamme, fu costretto a combattere nei campi di concentramento, dove venne ucciso da un Kapo. La sua storia è un simbolo della persecuzione dei Sinti e dei Rom durante l’Olocausto.

Rukeli si distinse per il suo stile innovativo nella boxe, introducendo il «gioco di gambe», una tecnica che sfidava la tradizione che voleva il pugile come una figura statica e virile, basata solo sulla forza bruta. In un periodo storico segnato dall’intolleranza, Trollmann divenne un ostacolo e la sua carriera fu brutalmente interrotta dal regime, che rifiutava ogni forma di diversità. Ma la sua resistenza e la sua determinazione lo hanno reso un simbolo. La sua decisione di restare in Germania, anziché fuggire come fece il suo allenatore, è uno degli interrogativi principali dello spettacolo: perché Rukeli ha scelto di non andare via?

Lo spettacolo è interpretato da Walter Maconi, che ha curato anche regia e drammaturgia insieme a Lucio Guarinoni. Scene e costumi sono realizzati da Emanuela Palazzi, mentre il disegno luci, le animazioni e la programmazione video sono a cura di Massimiliano Giavazzi. Le riprese video sono affidate a Ila Scattina e la collaborazione tecnica è a cura di Carlo Villa. La realizzazione delle scene è stata curata da Max Zanelli.

La drammaturgia di «Via da lì» si concentra sulla fisicità del corpo di Rukeli, la sua resistenza fisica, psicologica e il suo percorso di affermazione; allontanandosi volutamente dalla narrazione biografica, accompagna una riflessione sulla lotta per l’identità e sulla capacità dello sport di trasformare la vita. Quando si scrive una drammaturgia, bisogna scegliere la prospettiva dalla quale si vuole raccontare la storia e Maconi ci ha mostrato il percorso in questa intervista.

CD: Come nasce l’idea di raccontare la storia di Rukeli?

WM: L’idea è nata dalla mia passione per la boxe, che ho praticato. Ho sempre amato il lato fisico di questo sport, la sua intensità e la disciplina. Quando ho deciso di portare un racconto legato alla boxe sul palcoscenico, ho cominciato a cercare storie che potessero incarnare quella forza e quella bellezza. È così che mi sono imbattuto nella storia di Johann Trollmann, la sua vicenda mi ha colpito profondamente, non solo per la sua capacità di resistere fisicamente e mentalmente sul ring, ma anche per il contesto storico in cui è vissuto. Rukeli è una figura che incarna la lotta in un’epoca di persecuzione e repressione, la sua storia è un atto di ribellione contro l’ingiustizia e il razzismo, e ho sentito che doveva essere raccontata.

CD: Qual è stato il processo creativo per costruire lo spettacolo?

WM: Il nostro approccio creativo è nato dal corpo, non dalla parola. Con il regista Lucio Guerinoni, abbiamo voluto esplorare il movimento fisico come linguaggio primario. La boxe è uno sport che racconta storie con il corpo, e per raccontare la storia di Rukeli, dovevamo prima di tutto metterci in contatto con quel corpo, con i suoi gesti, i suoi movimenti, il suo stile unico. Ho portato sul palco i miei movimenti da pugile, cercando di entrare in sintonia con l’energia e la resistenza che Rukeli doveva avere per affrontare il mondo. Da fuori, Lucio osservava, e insieme abbiamo esplorato improvvisazioni fisiche che ci hanno permesso di cogliere l’essenza dei suoi gesti. Solo successivamente sono arrivati i testi e la drammaturgia, che sono nati dall’intensità di quei movimenti, dalle emozioni che ci hanno guidato.

CD: In che modo il corpo di Rukeli è diventato il fulcro dello spettacolo?

WM: Il corpo di Rukeli è diventato il cuore pulsante della narrazione: era un pugile che non seguiva le convenzioni, ma che si distingueva per uno stile elegante e unico. Abbiamo voluto mettere in scena non solo la sua abilità sul ring, ma anche le trasformazioni fisiche che ha subito, come il suo corpo è stato messo a dura prova. Ogni gesto, ogni movimento racconta una parte del vissuto, così, il corpo di Rukeli diventa simbolo. Abbiamo cercato di far parlare quel corpo, di raccontare la sua forza, ma anche la sua vulnerabilità.

CD: Come avete gestito il rapporto tra biografia storica e adattamento teatrale?

WM: Abbiamo fatto riferimento alla biografia di Rukeli, ai materiali storici, ma il nostro obiettivo non era fare una cronaca precisa della sua vita. Ci siamo concentrati sugli aspetti universali della sua vicenda, cercando di far emergere l’essenza di quella lotta. Il libro di Mauro Garofalo – («Alla fine di ogni cosa» edito da Sperling & Kupfer, ndr) –, che ho letto durante la preparazione, è stato fondamentale per comprendere meglio il contesto storico e la figura di Rukeli, ma sapevamo che non potevamo adattarlo parola per parola. La nostra sfida è stata quella di rendere la sua storia teatrale, di darle una dimensione emotiva che fosse più che una semplice ricostruzione storica.

CD: Il titolo dello spettacolo, «Via da lì», ha un significato particolare.

WM: «Via da lì» è una frase che un allenatore dice al suo pugile quando si trova in difficoltà, per invitarlo ad allontanarsi dalle corde e a prendere fiato. Per Rukeli, però, il concetto di “andare via” si carica di un significato più complesso. Nel suo caso, infatti, non è solo una fuga, ma una scelta consapevole. Quando gli è stato chiesto di lasciare la Germania nazista, Rukeli ha deciso di restare, affrontando una lotta personale e politica che lo ha portato a diventare un simbolo. Il titolo, quindi, racchiude in sé il dilemma della resistenza: restare o fuggire?

CD: Qual è il messaggio principale dello spettacolo?

WM: Il messaggio non è didascalico, non vogliamo dare risposte definitive. Lo spettacolo vuole stimolare riflessioni sul concetto di resistenza, sull’identità, sul significato di combattere per ciò in cui si crede. È una storia che parla di chi non si arrende mai, anche quando le probabilità sono tutte contro di sé. La lotta di Rukeli è una metafora di una battaglia più grande: quella per la libertà, per la dignità, per la propria voce. Lo spettacolo invita a riflettere su cosa significa resistere, non solo fisicamente, ma anche emotivamente e moralmente.

CD: Come reagisce il pubblico a questa storia?

WM: La reazione del pubblico, in particolare dei più giovani, è stata molto intensa. Spesso ci dicono di essere rimasti colpiti dalla fisicità dello spettacolo, dalla forza emotiva che trasmette. Ci chiedono perché Rukeli non sia fuggito, perché abbia scelto di rimanere, e si soffermano molto sulla trasformazione del suo corpo in scena. I ragazzi sembrano percepire la lotta interiore di Rukeli, la sua determinazione a non arrendersi, e questo li tocca profondamente. Lo spettacolo diventa un punto di riflessione su cosa significa essere sé stessi in un mondo che ci chiede di conformarci. Il corpo, i movimenti, i gesti diventano veicoli di emozioni che parlano direttamente al cuore del pubblico.

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