93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

Il teatro silent disco di Serena Sinigaglia per “Lo Sguardo del Gatto”

Articolo. La seconda edizione del festival di teatro e inclusione targato Teatro Prova vede tra gli ospiti la direttrice artistica di ATIR, con “Il suono del tempo e dello spazio”, sabato 3 ottobre all’Abbazia Benedettina di San Paolo d’Argon. Un progetto che mescola il linguaggio scenico e un approccio sonoro in cuffia

Lettura 4 min.
Serena Sinigaglia

Comprendere, connettere, allargare, inserire, coinvolgere, aprire, creare e dare possibilità; ma anche mescolare, unire, contaminare; ampliare lo sguardo, tentare, mettersi in discussione, diluire confini, oltrepassare barriere, mettersi a testa in giù per avere un punto di vista insolito, andare e pensare oltre i limiti.

Nel concetto di inclusione c’è sempre qualcosa da superare: il pregiudizio, la paura, una barriera fisica, la diffidenza, un muro, un confine nazionale, e a monte di questo c’è un punto di vista da cambiare, minimo o macroscopico. Teatro Prova ha scelto, per la seconda edizione del festival di teatro e inclusione “Lo Sguardo del Gatto” (1-4 ottobre nell’Abbazia Benedettina di San Paolo d’Argon, in provincia di Bergamo, qui il programma completo), un’immagine in cui i colori – entità primaria e simbolica – si espandono e pervadono disordinatamente spazi oltre i bordi prestabiliti.

Gli ospiti del festival, provenienti da mondi diversi – dal Diversity management all’architettura, dalla pittura alla psicologia – proporranno laboratori, talk, eventi. E, ovviamente, non si prescinde dal teatro: non solo perché possiamo considerare gli “spazi inclusivi” del titolo di questa seconda edizione come un’allusione al teatro in senso ampio, come luogo e strumento con cui muoversi da un lato all’altro del limite; ma anche perché, come afferma una degli ospiti, Serena Sinigaglia, fondatrice e direttrice artistica di ATIR Teatro Ringhiera, “il teatro se non è inclusivo non è teatro”.

Sinigaglia porterà a “Lo Sguardo del Gatto”, sabato 3 ottobre alle 21.00, un progetto, o meglio, un’esperienza: “Il suono del tempo e dello spazio” (dai 16 anni, 15 €, su prenotazione allo 035.4243079), in cui i partecipanti verranno guidati in un percorso teatrale itinerante dalla voce degli attori della compagnia, fino ad essere condotti a un momento corale finale. Un progetto partecipativo e immersivo, in cui il fruitore è al tempo stesso attore e spettatore. La regista e drammaturga ci ha raccontato la sua concezione di teatro inclusivo e perché questa definizione, per lei, sia semplicemente ridondante, e dovrebbe essere usata con cautela per non rischiare confusioni inutili. Quando si parla di inclusione, infatti, non si dovrebbe pensare solo a fasce che consideriamo fragili della società (come disabili, anziani, detenuti), ma a tutti, perché tutti il teatro deve toccare.

Teatro inclusivo è una paradossale ovvietà. Rispetto al cinema, il teatro presume una contemporaneità di tempo e di spazio tra almeno due persone. Questo significa che il teatro è sempre un atto pubblico, e di conseguenza politico, per il semplice fatto che richiede una co-presenza di persone, che rappresentano la società. Si tratta di un incontro umano, quindi per forza inclusivo. Si vive un’esperienza che si presume buona e proficua, insieme. Penso che alcune categorizzazioni relativamente recenti, ad esempio il teatro sociale, forse siano in parte utili ma in parte rischiose, nella misura in cui creano dei pregiudizi e dei limiti che non ci sono. D’altra parte, per citare uno splendido festival, ‘da vicino nessuno è normale’”.

Quindi chi ha più bisogno di teatro, oggi? “Tutti. Ognuno di noi ne ha bisogno, ovviamente con caratteristiche diverse. Oggi più che mai, in una contemporaneità patologizzata e distruttiva come la nostra, soggetta a ogni tipo di ansie e morbi. È un enorme lavoro che abbiamo la responsabilità di fare”.

D’altronde, Sinigaglia ribadisce che non è necessariamente nello “spettacolo” che risiede il senso del fare teatro: “Per me il teatro si occupa della qualità delle relazioni. L’arte è assolutamente congeniale purché la si usi come accrescitivo dell’esperienza dal vivo”. Si può pensare, allora, che qualsiasi linguaggio utile a creare connessioni lo possa contaminare. Come succede ne “Il suono del tempo e dello spazio”, in cui le voci virgiliane di attori e regista arrivano alle orecchie dei partecipanti da un paio di cuffie da silent disco. Una curiosa forma di ibridazione di linguaggi, che nasce dalla possibilità di usare il teatro per contaminare altri strumenti, e viceversa.

La silent disco nasce in ambito discotecaro: è un mezzo tecnologico usato solo in questo senso. Io l’ho sempre vista come un’esperienza al limite, mi sembrava il simbolo dell’alienazione contemporanea. Quindi ho pensato, complice il Covid, che il teatro ci si potesse innestare. Ne ho approfittato per giocare: volevo creare un’esperienza narrativa, che conducesse i partecipanti ad abitare lo spazio per la prima volta in modo diverso. Ho usato quindi il teatro come fattore umanizzante, rendendo una pratica normalmente solitaria un’opera artistica corale. Non sono solita a queste commistioni, ma questo periodo mi ha sicuramente spinta a sperimentare”.

Una trasversalità di strumenti e generi che aiuta a raggiungere e coinvolgere più persone. Forse serve anche a chi fa teatro ad assumere punti di vista diversi? “Utilizzare strumenti quotidiani può essere un modo per raggiungere tutti, soprattutto i più giovani, che magari sono molto distanti dall’idea di andare a teatro. Detto questo, non penso che il teatro ne abbia necessariamente bisogno, Covid a parte. È chiaro che noi operatori teatrali possiamo essere più creativi, fantasiosi, meno schizzinosi, aprirci ad esperienze diverse: il pericolo, per noi, è di chiuderci in un atteggiamento snob, arroccarci in una torre eburnea. Con la scusa di fare un mestiere legato all’umano, finire per dividere i cittadini di serie A da quelli di serie B, e distaccarci di conseguenza dalla società diventando un’élite”.

Eppure, secondo Sinigaglia, non è questa la vera malattia del teatro contemporaneo. “Sono convinta che uno dei maggiori problemi, oggi, sia una questione di visibilità. Ci sono delle falle a livello di promozione e marketing: in questo senso, il nostro teatro è molto indietro. Gli operatori teatrali dovrebbero avere modo di lavorare per rendere accattivante ciò che propongono, per agganciare tutte quelle persone che normalmente hanno paura dell’idea di teatro. E soprattutto, dovrebbero essere messi nelle condizioni di poter lavorare: essere difesi, sostenuti e tutelati dalle istituzioni, per potersi occupare delle esigenze culturali della società. Purtroppo questo non accade”.

Esigenze che non hanno a che fare con l’intellettualismo, ma con l’umano: il ritorno all’essenziale, ciò che ci accomuna, tutti, per puntare a cambiare, a poco a poco, la cultura della violenza e della sopraffazione. “Nella qualità della relazione ciò che accade, al netto di tutto, è semplicemente la riappropriazione dell’umano. Siamo esseri sociali, quindi fa parte della nostra natura stare in relazione e condividere, nell’incontro e nel confronto”.

Sito Teatro Prova

Approfondimenti