All’interno delle celebrazioni per Sant’Alessandro 2020, il 28 e 29 agosto deSidera Festival porta al Lazzaretto di Bergamo “Chiedimi se sono di turno” di Giacomo Poretti, per la regia di Andrea Chiodi (ore 21.30, prezzo 7 euro; email: [email protected]).
In anteprima a Bergamo, come omaggio alla città divenuta suo malgrado un simbolo della pandemia, viene presentata la versione aggiornata dello spettacolo ispirato al mondo delle corsie d’ospedale, con uno sguardo umoristico e affettuoso all’umanità che le popola. Previsti cento ingressi omaggio per il personale sanitario dell’Ospedale Papa Giovanni XVIII.
MM: Chiedimi se sono di turno è uno spettacolo che esisteva già in epoca “pre-Covid”, vero?
GP: Sì, ha debuttato l’anno scorso a novembre a Milano al teatro Oscar, siamo stati in scena 10 giorni e poi il tour si è interrotto il 22 di febbraio, per i motivi che tutti conosciamo. Dopo tutti questi mesi, sono contento che il Comune di Bergamo mi abbia cercato per fare lo spettacolo al Lazzaretto, perché mi ha consentito di rimaneggiarlo.
MM: E come lo ha adattato, dopo questa tragica esperienza collettiva?
GP: Prima era un racconto della vita in ospedale vista da un infermiere. Ora parlo di un reparto che di solito suscita poco interesse, cioè la geriatria. I vecchi sono ritornati prepotentemente alla ribalta col Covid. Dopo tutto quello che è successo, si parlerà dei virus e della loro apparente invincibilità. La scienza è utilissima, ma non è perfetta ed è stata umiliata da questa esperienza.
MM: Si riferisce anche alle diatribe mediatiche fra virologi, che tanto confondono l’opinione pubblica?
GP: Sì, questo spettacolo indecoroso di scienziati che litigano è la dimostrazione di ciò che sto dicendo. Mi ha stupito la perdita di controllo e aplomb da parte del mondo della scienza medica. Di solito quando non si hanno risposte si sta zitti, non capisco le scene isteriche.
MM: Secondo lei lo fanno per un desiderio di visibilità?
GP: Ci sono l’arroganza e la voglia di arrivare, ma anche qualcosa che negli ultimi tempi ci accomuna tutti: essere infastiditi dalle opinioni degli altri e non riuscire a stare calmi nei confronti di qualcosa di inaspettato.
MM: Forse sono proprio i più inesperti ad avere una fiducia cieca nella scienza medica, pensando che possa dare tutte le risposte…
GP: La scienza più genuina sa di procedere per tentativi ed errori. E noi dovremmo mettere da parte la pretesa di sapere tutto e controllare tutto.
MM: Medici e infermieri sono stati dipinti come eroi nei mesi del lockdown, ora sembrano passati un po’ nel dimenticatoio. Lei sul palco come sceglie di rappresentarli?
GP: Io ho su di loro uno sguardo affettuoso. Infermieri e medici fanno lavori molto diversi: il medico individua la diagnosi e la terapia, nei limiti della possibile fallibilità. Anche in questo caso: il medico può sbagliare, mi stupisce sempre la voglia di vendetta e giustizia sommaria se qualcosa non va come deve andare. L’infermiere ha piuttosto il compito della cura dell’ammalato e della somministrazione della terapia. Anche lui può sbagliare, soprattutto nell’atteggiamento, ma a me interessa raccontare l’epicità del lavoro dei sanitari. Mi piace raccontare lo sguardo umano di chi è sempre a contatto con la fragilità dell’essere umano.
MM: Lei ha lavorato in ospedale, cosa c’è di auto biografico nello spettacolo?
GP: C’è qualcosa, così come c’è della fantasia. Ho lavorato 11 anni in ospedale e nella drammaturgia, come spesso accade, ricorro alla mia biografia.
MM: È rimasto in contatto con vecchi colleghi, si è confrontato con le loro recenti esperienze?
GP: No, raramente, ma ho lavorato in ospedale una vita fa: dal 1974 al 1985. Nel frattempo ho conosciuto altri amici medici con cui ho scambiato delle opinioni.
MM: Ha voglia di raccontarci come è diventato infermiere, e come da caposala è diventato uno dei comici più conosciuti in Italia?
GP: Sono entrato in ospedale giovanissimo, a 18 anni, perché cercavo un lavoro. Ho cominciato facendo l’omino delle pulizie, poi mi sono diplomato e sono diventato infermiere professionale e anche caposala. Ma ho sempre avuto il desiderio del teatro, ho fatto una scuola apposta, e quando questa avventura è iniziata non mi sono più fermato e ho lasciato l’ospedale.
MM: Le fa effetto che allo spettacolo assista il personale sanitario?
GP: A me non fa grande differenza. Mi è capitato che infermieri e medici percepissero con più entusiasmo alcuni passaggi dello spettacolo, ma credo che le tematiche della salute interessino tutti e riguardino tutti.
MM: Lei come ha vissuto l’esperienza del Covid?
GP: Con paura e preoccupazione. I primi di marzo, quando io e mia moglie ci siamo ammalati, non c’erano certezze dal punto di vista della terapia. Questa è stata la cosa più angosciante: se ti viene un infarto sei preoccupato, ma sai che esiste una procedura. Qui siamo andati tutti a tentoni.
MM: Tantissimi cittadini lombardi sono stati male, a casa, con la consapevolezza di non potere essere visitati né tanto meno andare in ospedale. Anche lei l’ha vissuta così?
GP: Le indicazioni erano poche, prendere la tachipirina e andare in ospedale solo se non si riesce respirare. La mia preoccupazione era che le condizioni si aggravassero, ma per fortuna abbiamo avuto solo febbre. Nessuno sapeva cosa fare. Un medico cui ci siamo riferiti io e mia moglie per avere indicazioni mi ha risposto: “Guardate il telegiornale”, ammettendo che non sapeva cosa dirmi. Sembra una frase di estrema debolezza, ma io l’ho trovato molto umano. Hanno vissuto anche loro questa grande incertezza, e non perché fossero medici incapaci, ma perché non si sapeva nulla.
MM: Lei ogni tanto nei suoi personaggi gioca a mostrarsi come ipocondriaco, cosa c’è di vero?
GP: Niente, è un puro gioco di fantasia e comicità. Funziona bene per contrapposizione, nelle gag, perché ognuno di noi ha conosciuto qualcuno ossessionato dalle malattie. È divertente. Anche con i miei soci Aldo e Giovanni lo sketch dei medici è uno dei più fortunati e sentiti. La sanità e la malattia fanno sempre ridere, credo anche per contrapposizione, perché sono cose che ci spaventano.